La sua vita è stata un continuo entrare, un finire dentro, senza mai liberarsi della fama che lo precedeva. Paolo Maurizio Ferrari, o Mau il rosso, come lo chiamavano i compagni, ha passato oltre la metà dei suoi anni in galera, senza mai essersi macchiato di reati di sangue. Tra i brigatisti fu il primo a essere arrestato e l’ultimo a uscire. Nei suoi 30 anni al fresco non ha mai chiesto un permesso e quando glielo accordavano d’ufficio voltava le spalle: “Io sono un prigioniero proletario”.

A pochi giorni dalla sua scarcerazione, Alberto Franceschini, l’unico che per Ferrari, per qualche tempo, ha preso le sembianze di qualcuno molto simile a un fratello, disse: “Non ha un avvocato non ha mai fatto domanda per il cumulo della pena e quindi non ha diritto a sconti, affidamenti o altri benefici di legge. Potrebbe sommare 80 anni di carcere senza che nessuno se ne accorga. Sono purtroppo convinto che non voglia uscire. Dopo 30 anni di carcere l’ideologia diventa un alibi e intorno al suo ruolo politico di rivoluzionario irriducibile Ferrari ha costruito le sue abitudini. Anche il carcere diventa un’abitudine. Temo che si sentirebbe spaesato, non sarebbe più nulla. Per questo dico che potrebbe essere il primo a voler restare in carcere”.

Del suo primo entrare, Ferrari non può avere ricordi. Aveva nove mesi, e tra le braccia della madre, figlio di padre ignoto, viene affidato a don Zeno Saltini che di li a breve avrebbe fondato la comunità Nomadelfia, dove Ferrari crebbe tra tanti altri figli di nessuno, in una società che ti insegna a non creare filtri mediatori.

La comunità l’abbandona a 23 anni, per sua scelta. E’ curioso, vuole vedere cosa esiste al di la di quelle mura vicino a Carpi. Va a Torino, alla Magneti Marelli, dove don Zeno si raccomanda a tutti i santi in paradiso per farlo assumere. Ma siamo nel 1968 e si scontra con quella che diventerà la sua eterna rivoluzione. Conosce tanti figli di papà che da Pisa hanno messo in piedi Potere operaio. E lì fu la sua collocazione naturale, lui che proletario poteva scriverlo sulla carta d’identità.

Da Torino a Milano, questa volta alla Pirelli. E’ qui che conosce per la prima volta il suo futuro, le Brigate rosse. Con Franceschini, Renato Curcio e Margherita “Mara” Cagol, diventa uno dei fondatori. La leggenda vuole che la stella a cinque punte fu lui a disegnarla, quasi per gioco. Ma dietro l’angolo l’aspetta un nuovo ingresso. Ferrari viene arrestato il 27 maggio del 1974. Ha 29 anni e da uomo porta solo la lunga barba rossa. Lo trovano con un volantino che rivendica il sequestro del giudice Mario Sossi, a Genova, catturato e liberato dopo pochi giorni. Al primo grande processo al nucleo storico a Torino il 9 marzo 1978, alla caserma La Marmora, Ferrari è il portavoce dei 46 imputati del nucleo storico. È lui a dire in aula “ci proclamiamo pubblicamente militanti dell’organizzazione comunista Brigate Rosse, e come combattenti comunisti ci assumiamo collettivamente

e per intero la responsabilità politica di ogni sua iniziativa passata, presente e futura”. E a seguire l’invito-minaccia agli avvocati di non assumere la difesa d’ufficio.

L’anno successivo Ferrari è all’Asinara, nel supercarcere diretto da un singolare controverso personaggio di nome Luigi Cardullo, quattro anni dopo destinato lui stesso a finire in carcere insieme alla moglie. Nella notte tra il 2 e 3 ottobre i brigatisti devastano la sezione Fornelli dell’Asinara e ottengono il trasferimento. Ma Ferrari, due mesi prima, la sua piccola rivincita contro Cardullo se l’era già presa: il direttore, senza motivo, ordina agli agenti di sequestrargli un giornale, La Nuova Sardegna. Lui si rifiuta e allora si presentano in gruppo per un pestaggio in piena regola. Lo portano nel “pollaio”, come lo chiamavano perché la moglie del direttore ci allevava le galline. Lo denudano, ma lui si difende, sferra un cazzotto all’occhio di un agente, si apre, un varco, fugge nel cortile e afferra un sasso. Un agente più anziano media la resa. Una piccola vittoria che gli costa l’isolamento.

Sarà così tutta la detenzione di Ferrari. Nessuno reato di sangue, ma la fama di duro e colonnello delle Br lo accompagnerà tutta la vita. Duro prima, irriducibile poi, perché è tra i pochi a non essersi né pentito, né dissociato, né aver mai fatto pubblica ammenda. Fino alla fine.

Il 7 maggio del 2004 lo scarcerano. Lui se ne va senza salutare nessuno. Quasi gli avessero fatto un dispetto. Si è scontato molto di più della sua pena. Probabilmente anche i reati commessi vennero valutati dai giudici in un contesto di assoluta emergenza. Ferrari non ha ucciso e neppure era tra i sequestratori del giudice Sossi. Quando le Brigate rosse iniziano a uccidere lui è in carcere da anni. Ma su di lui pesano le parole pronunciate al processo di Torino e il rifiuto perpetrato di essere assistito e chiedere qualsiasi permesso.

Sappiamo poco della sua vita tra il 2004 e oggi. Probabilmente aveva ragione Franceschini. Non era pronto alla libertà, la sua gabbia ideologica lo aveva ormai condannato all’ergastolo.

Ieri il suo ennesimo ingresso. In carcere. Associazione per delinquere nell’ambito degli scontri in val Susa.

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