Sono iniziate le consultazioni tra governo e parti sociali per avviare la riforma del mercato del lavoro. In campo, secondo le indiscrezioni, due proposte: quella formulata dal senatore del Pd Pietro Ichino, presentata a dicembre 2011, e quella presentata dal senatore (sempre del Pd) Paolo Nerozzi, tramite una proposta di legge che ha oramai due anni, intitolata “Contratto prevalente a tutele crescenti”.

Fonti accreditate dicono che il governo intende far riferimento soprattutto alla seconda proposta, quella di Nerozzi, inserendo l’idea del contratto unico, proposta dagli economisti Boeri e Garibaldi un paio di anni fa. L’intenzione (dichiarata, ma da  verificare) è quella di sostituire con un unico contratto gli attuali 48 censiti dall’Istat. Nascerà quindi il Cui, contratto unico di ingresso. Avrà due fasi: una di ingresso, che potrà durare, a seconda dei tipi di lavoro, fino a tre anni. E una seconda fase di stabilità, in cui il lavoratore godrà di tutte le tutele che oggi sono riservate ai contratti a tempo indeterminato.

Durante la fase di ingresso, in caso di licenziamento con motivazioni che non siano di tipo disciplinare (“giusta causa”), il datore di lavoro non avrà l’obbligo di reintegrare il dipendente ma potrà risarcirlo pagando una specie di penale pari alla paga di cinque giorni lavorativi per ogni mese lavorato. In caso di una fase di ingresso di tre anni, il licenziamento dovrà essere risarcito con un massimo di sei mesi di mensilità.

Pur non parlando esplicitamente di abrogazione o limitazione dell’art. 18 (come invece fa Ichino nella sua proposta), di fatto per i primi tre anni si ha la totale liberalizzazione del licenziamento, a fronte di un risarcimento monetario. Già oggi, durante il periodo di prova, non si applica la l’articolo 18 sui licenziamenti. La riforma si traduce quindi nell’allungamento del periodo di prova (oggi di 6 mesi massimo) fino a tre anni e in cambio concede che il contratto di ingresso si trasformi automaticamente, al termine della prova, a tempo indeterminato.

Si dichiara inoltre che tale contratto unico dovrebbe sostituire tutti gli altri contratti (con l’eccezione dei lavori stagionali o particolari). Abbiamo qualche dubbio al riguardo, e temiamo invece che il contratto unico possa diventare il 49° contratto e andare così ad aggiungersi a quelli precedenti. Altrimenti non si spiegherebbe la volontà di intervenire anche sui contratti a progetto e su quelli a tempo determinato (invece che semplicemente abrogarli). Secondo la proposta della ministra Fornero, la possibilità di ricorrere a questi due contratti (che sono i più diffusi e utilizzati dalle imprese) verrebbe vincolata al livello di remunerazione. Per i contratti a progetto, si parla di una soglia di 30.000 euro lordi l’anno; per il tempo determinato di 25.000 euro.

Da questo punto di vista, l’impressione che si ricava è si tratti di una regolarizzazione e razionalizzazione della condizione precaria. Ognuno sarà infatti libero di passare da un contratto precario non ogni tre mesi, con effetti deleteri sulla produttività di sistema, ma ogni anno o due (sino a un massimo di tre). L’importante è che la spada di  Damocle della possibile conferma continui a operare come dispositivo disciplinare e di fidelizzazione. Inoltre, in tal modo, si mette ordine anche ai rischi connessi alle cause sempre più numerose intentate dai precari e precarie (San Precario ne sa qualcosa…). Una semplificazione formale del contratto che lasci inalterato il ricatto del rinnovo riduce infatti di molto la possibilità di intentare una causa giuridica.

Ma è sul lato degli ammortizzatori sociali e delle proposte di welfare, che la proposta di riforma mostra tutti i suoi limiti. Con l’obiettivo di semplificare e tornare alle origini, si propone l’utilizzo della cassa integrazione solo per far fronte alle crisi cicliche e temporanee dei settori. Per le crisi strutturali e il sostegno a chi ha perso il lavoro dovrebbe invece intervenire il reddito minimo di disoccupazione, una sorta di sussidio di disoccupazione allargato anche alle forme atipiche che vengono riassorbite dal contratto unico che, in base al progetto di legge Nerozzi, manterrebbe tuttavia le stesse modalità di accesso. Nulla si sa riguardo alla durata (oggi massimo otto mesi) e l’ammontare (pari al 60% della retribuzione lorda mensile per i primi 6 mesi, al 50% per il settimo e l’ottavo mese, per un livello comunque non superiore a 858 euro mensili).

Con l’inasprimento dei requisiti per maturare il diritto alla pensione, di fatto il reddito minimo di disoccupazione si trasformerebbe in un’indennità di mobilità come la mobilità lunga, oggi ampiamente sfruttata dalle aziende per ristrutturare scaricando una parte dei costi sull’Inps. In secondo luogo tale reddito minimo sarà comunque condizionato, vincolato e temporaneo. Un’idea distante dal reddito di base incondizionato come proposto da San Precario.

Potrebbe essere positiva la proposta di introdurre un salario minimo: peccato che non sia calcolato su base oraria, ma mensile (almeno così pare). In tal modo si possono creare ampi margini di flessibilità nell’orario di lavoro. In Italia, oggi, il salario minimo (orario o mensile) non esiste, in quanto contrattato a livello di categoria o di azienda con elevata variabilità e sperequazioni. Ma esistono aree, come quelle dei precari che lavorano a progetto, in cui del salario minimo non c’è traccia. Non è così all’estero, dove gli Stati stabiliscono per legge qual è la paga oraria minima che un datore di lavoro può corrispondere. L’obiettivo è quello di stabilire un livello sotto il quale non è consentito andare per far sì che tutti i lavoratori abbiano una paga in grado di mantenere una famiglia in condizioni dignitose. Ogni paese ha fissato quella soglia (così in Francia il salario minimo è di circa 1.350 euro lordi mensili mentre in Spagna è di circa la metà, 600 euro lordi mensili). E in Italia?

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