La più imponente manifestazione della storia dell’Egitto. Persino più grande di quella dell’11 febbraio 2011, quando Hosni Mubarak decise di dimettersi da presidente dopo 18 giorni di proteste di strada. Il morale degli attivisti è alto, a Piazza Tahrir. Perché di gente, a giudicare dai video, dalle foto, dai testimoni, ce n’è veramente tanta. Centinaia di migliaia. Forse un milione, arrivati dai differenti quartieri del Cairo attraverso marce accuratamente organizzate. Dall’università del Cairo, dal quartiere borghese di Mohandessin o da quello di Heliopolis, dal centro culturale Sawi, studenti, aderenti ai diversi partiti o movimenti, sostenitori di questo o quel candidato alle prossime presidenziali. Attivisti della prima ora, famiglie, ragazzi, anziani. L’Egitto, ancora una volta, sorprende tutti e scende in massa in piazza a un anno dallo scoppio di una rivoluzione covata ma inattesa. A un anno dal 25 gennaio, giornata ormai incastonata nella memoria di ogni egiziano.


video di Cosimo Caridi

Chi si aspettava l’apatia e la stanchezza, si è dovuto ricredere. Al Cairo, a Suez, ad Alessandria, a Mansoura. Non sono bastate le elezioni, l’apertura del parlamento, gli scontri di novembre tra manifestanti ed esercito a tenere a casa gli egiziani. Non è bastato neanche l’annuncio a sorpresa fatto dal capo della giunta militare che guida l’Egitto dall’11 febbraio scorso. Alla vigilia dell’anniversario della rivoluzione, il generale Mohammed Hussein Tantawi era comparso sugli schermi per dichiarare abolita l’odiata legislazione d’emergenza, che ha tenuto in scacco il paese per trentun anni. Stop alle leggi d’emergenza, salvo gli “atti criminali”, una definizione ambigua subito stigmatizzata dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, compresa Human Rights Watch.

La dichiarazione del generale Tantawi non ha, peraltro, messo al riparo la giunta militare dalle critiche, gli attacchi e gli slogan arrivati da Piazza Tahrir, che ha chiesto a gran voce il passaggio di poteri dai militari all’autorità civile. Dalla giunta al parlamento appena insediatosi. Gli attacchi sono stati ancora una volta durissimi, e ne è testimonianza il più grande striscione nella piazza, che mostrava Mubarak, il generale Tantawi e l’ex ministro dell’interno Habib el Adly con il cappio al collo. Dimostrazione, questa, che il 25 gennaio 2012, a Piazza Tahrir e altrove in Egitto, non era solo e non tanto per celebrare la rivoluzione. Ma, come molti attivisti dicono da settimane, per continuare una rivoluzione che è, per loro, ancora incompiuta.

I militari hanno dichiarato che torneranno nelle caserme alla fine di giugno, dopo lo svolgimento delle elezioni presidenziali. Ma in Piazza Tahrir, e non solo, si freme. C’è troppa ambiguità nella definizione dei poteri. Il parlamento che si è insediato lunedì è considerato un primo passo, nella transizione. Un primo passo istituzionale, e anche un primo passo politico, perché – inimmaginabile un anno fa – lo speaker dell’Assemblea del Popolo è un fratello musulmano. Anzi, una delle figure di spicco dell’Ikhwan.

Il movimento più importante del mondo arabo, dunque, arriva sino agli scranni più alti del potere legislativo, pur non avendo per nulla spinto per la rivoluzione. Nelle accuse di molti liberal e laici, anzi, i Fratelli musulmani avrebbe raggiunto un compromesso proprio con la giunta militare, per normalizzare la rivoluzione. I protagonisti della thawra, invece, non solo non sono quasi rappresentati in parlamento, ma sono da mesi oggetto di pressioni durissime. Tra i ragazzi di piazza Tahrir – laici, islamisti, di sinistra, copti, musulmani, hooligans – c’è chi, negli scorsi mesi, è morto, ha perso gli occhi, è stato incarcerato. Nomi che sono diventati noti anche al di fuori dell’Egitto. Mina Daniel, il ragazzo copto ucciso il 9 ottobre durante la manifestazione di Maspiro, divenuto una delle icone della martirologia della rivoluzione. Sheykh Imad Effat, imam, teorico, uno di quelli che stava mostrando un volto diverso dell’islam politico, ucciso a novembre. Ahmed Harara, il dentista che ha perso entrambi gli occhi per opporsi alle forze dell’ordine. Alaa Abdel Fattah e Maikel Nabil, attivisti incarcerati per mesi.

A giudicare da quello che è successo negli ultimi mesi, sembra facile indicare chi ha vinto e chi ha perso. L’establishment dei Fratelli Musulmani ha guadagnato il favore delle urne, assieme a una pattuglia consistente dei radicali salafiti. I rivoluzionari sono confinati nella piazza, nella “politica di strada” e continuano a ripetere le stesse richieste. Dignità e lavoro. Diritti. A giudicare da piazza Tahrir il 25 gennaio 2012, invece, non è detto che questa sia la lettura definitiva. Non è detto che la rivoluzione del 25 gennaio di un anno fa si sia conclusa. Ci sono ancora sei mesi, sino alle elezioni presidenziali, in cui si capirà se la transizione egiziana alla democrazia seguirà la via degli accordi della politica vecchio stampo, o se invece – ancora una volta – ci sorprenderà.

di Paola Caridi

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