Gingrich stravince in South Carolina e riapre la partita delle primarie repubblicane. L’ex-speaker della Camera ha ottenuto il 40,4% dei consensi; un risultato che, per lui, va ben al di là dei più ottimistici pronostici. Mitt Romney si attesta su un deludente 27,9%. A Santorum va il 17% dei voti. Quarto Ron Paul, con il 13%.

Si tratta di un risultato che rimodula in modo drammatico la sfida tra i repubblicani per la Casa Bianca, che sino alla settimana scorsa pareva ormai chiusa a favore di Romney. “Chiunque conosca qualcuno in Florida, per piacere lo contatti, ok?”, ha scherzato Gingrich, nel discorso con cui ha salutato i supporter dopo la vittoria. Incassato il trionfo in South Carolina, diventa per lui essenziale la prossima tappa delle primarie: la Florida, appunto. L’entità della vittoria di ieri dovrebbe aiutarlo. Come ha fatto notare Mark McKinnon, re della comunicazione politica USA, “il successo di Newt in South Carolina vale 10 milioni di pubblicità gratuita sui media americani”.

Delusione e rabbia sono stati invece i sentimenti più palpabili nel quartier generale di Romney a Columbia. L’ex-governatore del Massachusetts ha detto di essere pronto a battersi “per ogni singolo voto” e si è lanciato in un attacco durissimo nei confronti di Gingrich: “Il nostro partito non può essere guidato alla vittoria da uno che non ha mai gestito un’impresa o uno Stato”. Santorum porta a casa un terzo posto che gli consente di proseguire nella sfida almeno sino in Florida (nel discorso ai supporter, ha ancora una volta ripetuto la volontà di rimettere al centro della politica la famiglia; alcuni contestatori, infiltratisi tra la folla, gli hanno più volte urlato “Bigotto!”). Ron Paul ha invece la soddisfazione di vedere quadruplicati i suoi voti, rispetto a quattro anni fa. Farà, con ogni probabilità, una campagna “leggera” in Florida, per concentrarsi sugli Stati a lui più congeniali: Nevada, Maine, Minnesota, Colorado.

Le primarie in South Carolina erano particolarmente attese: dal 1980, il candidato repubblicano vittorioso nello Stato è anche il nominato finale del partito. Il trionfo di Gingrich è stato totale. Praticamente tutte le contee hanno votato per lui (con l’eccezione delle zone di repubblicanesimo più moderato, andate a Romney: l’area urbana di Columbia, e le contee di Charleston e Beaufort al Sud). Gingrich ha conquistato il voto del 60% degli elettori che pensano che l’economia sia la questione politica più importante (un brutto segnale per Romney, che si era sinora assicurato la maggioranza degli “elettori economici”) e del 50% di coloro che ritengono che battere Obama sia la priorità.

A questo punto si apre per Gingrich la fase più difficile. Il candidato ha bisogno di almeno due milioni di dollari di finanziamenti per far partire una nuova campagna di spot elettorali in Florida (dove nei quattro principali mercati televisivi – Tampa, Miami, Jacksonville, Fort Lauderdale – la pubblicità costa moltissimo). Gingrich sa poi molto bene che contro di lui si scatenerà a breve la furia della leadership repubblicana. “I big del partito non lo amano, lo ritengono instabile, inaffidabile, incontrollabile”, ha detto Doug Haye, analista repubblicano. Su Gingrich, probabilmente, cominceranno a piovere anche attacchi e accuse per la sua attività di lobbying e i legami con il mondo della finanza e dell’industria. “Il nostro focus a questo punto sarà sull’etica…” gli ha fatto sapere ieri sera un adviser di Romney.

Dopo il South Carolina, le cose però si complicano soprattutto per Mitt Romney. L’ex-governatore del Massachusetts resta il candidato più ricco, più sponsorizzato dalla leadership del partito repubblicano, più capace di organizzare una campagna elettorale lunga e difficile. Sulla sua corsa verso la Casa Bianca cominciano però ad addensarsi nubi insidiose. I big del GOP non sono riusciti a convincere la base che Romney sia la scelta migliore. Il risultato del South Carolina dimostra che è soltanto l’elettorato repubblicano “moderate to liberal” a ritrovarsi compatto dietro di lui. A Romney continua a mancare l’appoggio convinto della base conservatrice, dell’elettorato cristiano, di quello che guarda al Tea Party. In Florida, soltanto il 32% dei repubblicani si definisce “moderato o liberal”. Un segnale poco confortante per l’ex-governatore.

C’è poi la questione della dichiarazione dei redditi. Romney, sinora, non ha reso pubblica la propria (ha detto che lo farà, “ma solo ad aprile”). Nel discorso davanti ai supporter, ieri sera, il candidato ha cercato di minimizzare la cosa, riducendo le accuse nei suoi confronti ad “attacchi contro il mio successo e contro la libertà di impresa”. In realtà, i dubbi sui suoi tax returns (perché non li vuole mostrare? Quanto è vasta la sua fortuna? Quanto ha dato alla chiesa mormone?) sono diventati un problema politico reale. Più Romney aspetta, più la sua campagna ne risente.

Infine, c’è la durata dello scontro. Su una cosa tutti i candidati, ieri sera, si sono trovati d’accordo. La sfida sarà lunga. Le nuove regole stabilite dal partito repubblicano (soprattutto l’attribuzione dei delegati su base proporzionale per tutte le primarie e i caucus precedenti il 1 aprile, con l’eccezione della Florida) spostano avanti, molto avanti, la risoluzione dello scontro. Primarie prolungate nel tempo sono musica per le orecchie di Ron Paul, che pensa soprattutto a raccogliere delegati per la convention di Tampa e a rendere il più possibile popolare e visibile la sua “causa” libertaria. Ma primarie prolungate sono un’ottima cosa anche per Gingrich, che ha bisogno di tempo per rafforzare la forza finanziaria della sua campagna e restituire un’impressione di solidità politica e personale.

Il tempo è però il nemico di Romney. Più le primarie vanno avanti, più la sua immagine di autorevolezza, di candidato “naturale e predestinato”, si appanna. E con l’immagine, rischia di saltare anche la certezza della vittoria.

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