Giusto per vedere l’effetto che fa. Il governo, sul modello di Jannacci in “No, tu no”, ha lasciato trapelare sulla stampa le sue idee sulla riforma dei contratti di lavoro per far fare loro un giro di prova tra sindacati, politica e opinione pubblica. Scelta scaltra e che, entro certi termini, ha persino pagato: alla durezza della Cgil, per dire, fa da contraltare una Cisl già più morbida, un Pd tranquillo e un PdL contrario con garbo. In realtà, la proposta su cui lavora il ministro Elsa Fornero è una buona base d’asta in vista dell’incontro coi sindacati di lunedì prossimo: intanto toglie dal campo la proposta Ichino e la relativa questione del graduale abbandono dell’articolo 18 – inaccettabile per le organizzazioni dei lavoratori e per quasi tutto il Pd – e poi introduce uno schema generale suscettibile di essere accettato, soprattutto se accompagnato da una politica del lavoro espansiva (e a questo provvederà un tavolo gestito da Corrado Passera).

All’ingrosso l’idea del governo ricalca la proposta degli economisti Boeri e Garibaldi: un Contratto unico di ingresso (CUI) al lavoro che dopo tre anni si trasforma automaticamente in un classico indeterminato, articolo 18 compreso. Se il lavoratore viene licenziato nei primi 36 mesi ha diritto ad un indennizzo economico, ma non al reintegro. Al contrario della proposta dei professori, però, questo non cancellerà tutti gli altri contratti: ne resteranno quattro o cinque (dagli attuali 48), compresi i temuti parasubordinati, ma verrà introdotto un minimo retributivo (almeno 25mila euro annui per quelli a tempo determinato, almeno 30mila per i co.co.pro.). Ancora più vago quel che si sa sugli ammortizzatori sociali: resterebbe qualcosa di simile alla Cassa integrazione, ma si vorrebbe introdurre anche un reddito minimo di disoccupazione per chiunque si ritrovi senza lavoro (oggi i precari sono esclusi). L’ultima novità lasciata trapelare, infine, riguarda il salario orario minimo: ovvero, per un’ora di lavoro, non si potrà pagare meno di una certa cifra.

Fin qui quanto il ministero del Lavoro ha lasciato trapelare, il che ovviamente lascia aperte molte questioni. Una legge del genere potrebbe probabilmente essere un’ottima notizia per le vaste aree del precariato: nella proposta del governo sembra esserci la volontà, infatti, di fare del CUI se non il contratto unico, quello prevalente, rendendo meno convenienti quelli di altro tipo con relativi vantaggi in termini di tutele (malattia, ferie, disoccupazione, contributi). Ovviamente questo significherebbe quasi automaticamente tre anni di questa forma di precariato per tutti, anche in quei settori in cui attualmente l’apprendistato dura di meno. Anche il salario minimo orario può essere una trappola: se è troppo basso, come avviene ad esempio negli Stati Uniti, tutti si allineeranno a quella retribuzioni, anche chi prima pagava di più. Resta, poi, se questa sorta di CUI sarà incentivato come oggi il contratto di apprendistato, il rischio del licenziamento finale per gli aggravi fiscali che a quel punto si scaricherebbero sull’azienda. Ombre che andranno risolte con la trattativa.

“E’ una pista interessante, specialmente se il punto di riferimento è il contratto di apprendistato”, spiega al ilfattoquotidiano.it Stefano Fassina, responsabile Economia del Pd, considerato assai vicino sia al segretario Pierluigi Bersani che alla Cgil: “Certo bisognerà risolvere una serie di questioni che rischiano di cambiare di segno a tutto il progetto: intanto servono incentivi alla stabilizzazione – vale a dire sgravi per le aziende che assumono a tempo indeterminato – che si possono ottenere rimodulando l’attuale contratto di apprendistato, conveniente all’inizio, assai meno dopo; poi c’è il punto della durata di questi contratti di ingresso che andrebbe modulata per settore, altrimenti in alcuni è un arretramento, e la faccenda del salario orario minimo, che deve avere come base i contratti nazionali di categoria”.

Resta, infine, inevasa la questione più importante: “Quella degli ammortizzatori sociali – dice Fassina – tanto più in questa fase drammatica”. Da qui parte anche Cesare Damiano, ala sinistra del Pd pure lui: “Servono i soldi per quello e per incentivare le assunzioni. Quanto al resto non voglio mettermi a cavillare: l’importante è che alla fine del periodo di prova si venga assunti con tutte le tutele sancite dallo Statuto dei lavoratori”. Contrario, invece, il PdL: “L’idea del contratto unico – nelle diverse tipologie in cui si riconoscono le componenti del Pd – non è condivisa dal Pdl, che considera la pluralità delle forme contrattuali ora esistenti una opportunità per meglio corrispondere ad esigenze specifiche del mercato del lavoro”.

Anche tra le parti sociali le reazioni sono variegate. La Cgil ha aperto il confronto in vista del tavolo di lunedì a palazzo Chigi con una nota su Twitter piuttosto dura: “Il Contratto unico è un inganno”, bisogna puntare invece su quello di apprendistato. Poi c’è la questione crescita: “Lunedì diremo ai ministri che serve un piano del lavoro urgente per giovani e donne. Ci piacerebbe discutere di mercato del lavoro con qualcuno che lo conosca per averlo frequentato ogni tanto”. Toni meno caustici, invece, per la Cisl: “Il modello contrattuale deve essere quello dell’apprendistato – ha spiegato Raffaele Bonanni – . Si può discutere su un sistema che preveda una stabilizzazione dopo tre anni di contratto, ma questo periodo deve contemplare anche la formazione del nuovo assunto”. Confindustria, infine, non molla sull’articolo 18: “Sarà necessario – ha detto la presidente Emma Marcegaglia – modificare la flessibilità in entrata, ma anche quella in uscita: non si possono tutelare posti di lavoro che non esistono più”.

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