Due notch da Fitch, due notch da S&P. Poi arriveranno i notch di Moody’s. Un notch di qua e un notch di là. Interviste, prime pagine, e la borsa che fa? Va su? Va giù? Poi declasseranno le banche, gli enti pubblici. Quindi di nuovo gli stati. Un altro notch. Stavolta prima Moody’s, poi S&P’s, poi Fitch. O prima Fitch e poi S&P’s? Sotto a chi tocca. Prego, si accomodi. Il comunicato stampa è pronto? Avanti con le agenzie.

Basta rating, non se ne può più. Anche le borse, lunedì, hanno ignorato l’ultimo downgrade di Standard & Poor’s, quello che ha portato l’Italia per la prima volta sotto la A (a BBB+), la Francia e l’Austria ad AA+ e la Spagna ad A. I mercati hanno chiuso quasi tutti in positivo e lo spread tra il rendimento dei Btp italiani e i Bund tedeschi a dieci anni è addirittura sceso e continua a scendere. Anche perché i giochi sono fatti da tempo, e le tre sorelle del rating ormai arrivano tardi, quando i buoi sono già scappati. L’attacco all’Italia e all’Europa è iniziato in grande stile l’estate scorsa: l’8 luglio, se proprio si vuole fissare una data simbolo, quando Giulio Tremonti ha minacciato di dimettersi. O meglio, per dirla con i sacerdoti della finanza, quando il Pmi italiano è sceso sotto i 50 punti.

Ma si tratta di semplici scintille. Come l’assassinio del duca Francesco Ferdinando lo fu per la prima guerra mondiale. Anche oggi stiamo assistendo a una guerra: quella tra un mostro finanziario che è cresciuto in modo incontrollato e gli stati che – dopo averlo alimentato – cercano invano di domarlo, seguendo le regole che lo stesso mostro detta loro. Una guerra – secondo alcuni – del dollaro contro l’euro, dell’America contro l’Europa. Per farla terminare l’Europa ha di fronte poche possibilità, due in particolare: trasformare la Banca Centrale Europea in una potentissima aspirapolvere di titoli di stato della zona euro o guidare verso il default controllato la Grecia, il Portogallo e quindi l’Italia, mettendo la parola fine sulla favola della moneta unica. Il pallino, come si sa, lo tiene in mano la Germania, che prende tempo per placare i mal di pancia interni.

Nel frattempo Deutsche Bank – già nei primi sei mesi del 2011 – ha tagliato l’esposizione verso i titoli di stato italiani dell’88%, dando il “la” a tutto il settore bancario europeo. Prima della fine del 2011 l’hanno seguita a ruota Bnp Paribas, Commerzbank, Dexia, Crédit Agricole, Société Générale e Hsbc. “Meglio liberarsi ora dei titoli italiani che aspettare”, ha dichiarato un investment banker a Reuters in novembre. “Meglio chiudere in perdita adesso mentre tutti stanno prevedendo il default, piuttosto che aspettare che l’Italia fallisca davvero”. Nelle aspettative degli investitori i bond italiani sono già sotto l’investment grade (BBB-). Tra poco lo diranno anche S&P, Moody’s e Fitch. Non necessariamente in questo ordine.

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