Ancora un incidente stradale, con vittime giovanissime: cinque ragazzi di 20 anni morti sul Raccordo anulare di Roma. Ancora morti inaccettabili ed evitabili. Mentre l’attenzione di tutti è, giustamente, concentrata sulla tragedia della nave Concordia, l’ennesimo incidente colpisce al cuore famiglie e comunità che restano inebetiti al cospetto dei loro morti. Il riflesso immediato della stampa, tutta, e della politica, tutta, è quello di rubricare l’avvenimento nel campo della tragedia personale, dell’incidente occasionale, della “disgrazia” che magari si poteva evitare e della “colpa” da addebitare allo scellerato conducente di turno. Eppure, con ogni evidenza, siamo davanti a fenomeno sociale con 5000 morti all’anno, 300 mila feriti e oltre 20 mila disabili gravi che l’Associazione italiana Familiari e Vittime della Strada definisce una “guerra non dichiarata”. “Dopo ogni incidente grave – scrive l’Associazione – inizia un doloroso ed estenuante iter legale che dovrebbe portare alla individuazione delle responsabilità, alla punizione dei responsabili con pene commisurate alla gravità dei loro reati, e ad assicurare alle vittime o ai loro familiari un risarcimento equo. Anche in questo campo l’Italia si distingue negativamente dal resto d’Europa, con una giustizia lenta ed approssimativa, che calpesta continuamente la dignità dell’uomo e quei valori che la nostra costituzione dovrebbe tutelare. I problemi della sicurezza stradale e della giustizia riguardano tutti, nessuno escluso!”.

In effetti, se si guarda alla quantità e qualità del disastro, dovrebbe esserci una preoccupazione costante di un governo, di un ministro dei Trasporti, di un Parlamento decente, anche del Capo dello Stato. Ci dovrebbe essere una campagna nazionale permanente, un clima di esecrazione per ogni eccesso stradale, una cultura e un’educazione che comincino dalle scuole. Un altro ruolo dell’industria automobilistica, un rispetto per il trasporto pubblico, una diversa serietà nella concessione delle patenti, un diverso modo di fare pubblicità e propaganda. Non abbiamo ricette pronte, non siamo degli esperti, constatiamo solo un fenomeno evidente.

Invece, viviamo, e i nostri figli vivono, in un contesto dominato dall’ideologia del Suv, il mezzo di trasporto, brillante e aggressivo, in grado di divorare la strada, di saettare rapido e veloce lungo percorsi che, nelle pubblicità, sono sempre vuoti, spesso incastonati tra deserti e piante esotiche, attraversati solo da qualche daino sperduto. Mentre nella vita vera, ad attraversare le strade, rotte e polverose, sono persone vere, spesso bambini, come quello di sette anni ucciso qualche giorno fa o quello di cinque anni investito da un Suv davanti all’asilo. Nel 2011 i bambini sotto i 13 anni, uccisi in incidenti stradali, sono stati 65. La notizia finisce in una “breve” di cronaca oppure in un servizio strappa-lacrime.

Se, invece, la sicurezza stradale di tutti fosse davvero un “bene comune”, se le città fossero ordinate diversamente, se la dittatura dell’auto (che poi è quella delle case di produzione, Fiat in testa) fosse relegata al ruolo che le compete e il trasporto divenisse quello che davvero è, un servizio e non uno status, forse faremmo un passo avanti nella organizzazione di una vita più dignitosa. E ci sarebbero più ragazzi in grado di tornare a casa alle quattro di notte dopo una giornata di lavoro da McDonald’s.

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