Il bando dei Progetti di ricerca di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN 2010-2011), è apparso sul sito del Ministero dell’Università in una prima versione il 27 dicembre 2011 e poi in una versione riveduta il 12 gennaio 2012. Il PRIN costituisce la principale fonte di finanziamento pubblico della ricerca di base, e rappresenta quindi l’indirizzo generale che il governo intende dare alla ricerca pubblica. Il bando, che regolamenta le modalità di presentazione delle richieste di finanziamento, ha suscitato aspre critiche per l’assurda complessità  e per l’intento ovviamente punitivo e verticistico (ad esempio si veda la lettera di Margherita Hack sul Sole 24 ore, o il documento del PD).

Si possono riassumere i principali difetti del bando PRIN 2010-2011 in due punti. In primo luogo il bando pone vincoli alla struttura dei gruppi che possono presentare domanda di finanziamento per progetti di ricerca e agli importi minimi e massimi richiedibili. In pratica, se i vincoli saranno rispettati, potranno essere finanziati circa 220 progetti (lo stesso Ministro dell’Università ha stimato tra 200 e 250). Poiché è improbabile che le varie unità operative che parteciperanno a ciascun progetto possano mettere insieme più di una trentina di docenti e ricercatori a tempo indeterminato, saranno beneficiati non più di 7mila ricercatori. Siccome il PRIN viene bandito ogni anno ma i progetti finanziati durano tre anni, se questo sistema andrà a regime saranno sistematicamente finanziati circa 20mila docenti e ricercatori sugli oltre 70mila in servizio nel nostro paese. Che faranno i 50mila non finanziati?

In secondo luogo, il bando PRIN 2010-2011 per la prima volta nella storia di questo tipo di progetti prevede una doppia valutazione delle proposte presentate: prima da parte dell’Università e poi da parte del comitato nominato dal ministero. Le Università potranno presentare al Ministero solo un numero molto limitato di progetti e quindi dovranno effettuare il grosso della selezione, con una ovvia distorsione del risultato finale: progetti validi su scala nazionale potrebbero essere esclusi perché presentati accanto ad altri progetti validi dello stesso ateneo. A fronte delle critiche, il Ministro ha modificato il bando, in maniera provocatoriamente irrilevante.

In Italia la gran parte degli addetti alla ricerca sono docenti universitari, il cui compito principale è l’insegnamento: in tutto il mondo infatti si ritiene che l’insegnamento avanzato non possa andare disgiunto dalla ricerca. Che cosa succederebbe se i due terzi dei docenti universitari venissero messi nell’impossibilità di fare ricerca? Se un docente universitario smettesse di fare ricerca, perderebbe lentamente ma inesorabilmente il contatto con la scienza di punta e il suo aggiornamento: sarebbe certamente un danno per i suoi studenti. Inoltre questo docente smetterebbe di pubblicare lavori scientifici, e questo sarebbe un danno per il prestigio del paese, che si troverebbe a retrocedere nelle classifiche internazionali (attualmente l’Italia occupa l’ottavo posto nella classifica di SCImago. Infine, naturalmente, il paese verrebbe a perdere le potenziali ricadute tecnologiche della ricerca.

Quale danno verrebbe al docente? Un docente universitario non viene licenziato se smette di fare ricerca, perché il suo obbligo lavorativo esplicito è la didattica: ha più tempo per coltivare i suoi hobbies. Quasi quasi smetto di fare ricerca. Peccato, era interessante.

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