Un recentissimo libro di un professore dell’Università di Washington a Seattle, Philip N. Howard, pubblicato nella collana di studi oxfordiani dedicati alle Digital Policies e significativamente intitolato The digital origins of dictatorship and democracy affronta, in maniera completa, il tanto dibattuto tema del rapporto tra nuove tecnologie, regimi dittatoriali e “evoluzione” della democrazia in numerosi Stati. Il sottotitolo, altrettanto importante, precisa che lo studio dedica volutamente un’attenzione quasi esclusiva al quadro politico nei Paesi islamici. L’approccio è essenzialmente ricognitivo: prende le mosse da una mole enorme di dati che vengono presentati in appendice del libro con grafici e tabelle (ne costituiscono quasi il 50%!) e che servono da base solida per alcune osservazioni (e ragionamenti) che mi sono sembrati interessanti.

Il primo dubbio che l’autore si pone, osservando ciò che è avvenuto (o sta avvenendo) in molti Stati del mondo, è se le tecnologie dell’informazione siano in grado di dar vita a una infrastruttura tecnica talmente robusta da permettere ad attivisti, giornalisti indipendenti o dell’opposizione e a gruppi sociali di portare a veri e propri cambi di regime (o di politica) o se, al contrario, pur evidenziata l’indubbia importanza di tali tecnologie, siano ben altri gli elementi che contribuiscono a causare cambiamenti radicali ed epocali.

Ora, io sono convinto che sia sempre molto difficile “pesare” con precisione il ruolo che hanno le tecnologie in occasione di sommosse sociali, anche se l’autore, in questo caso, cerca di porre alla base delle sue considerazioni dati, numeri e tabelle basati su diversissimi tipi di media: ragiona sul numero di SMS scambiati in occasione delle proteste, sull’aumento o la diminuzione del traffico su Twitter (quell’umore degli utenti misurato con i grafici dei tweet circolati che è oggi tanto di moda e che sta interessando anche il mondo della finanza) in occasioni speciali, ad esempio prima di un Internet shut-down o nel caso di una reazione che l’autore definisce “vecchio stile” del regime (espulsione di corrispondenti stranieri, sequestro di quotidiani o arresto degli oppositori).

Una prima nota, a mio avviso corretta, dell’autore riguarda l’indubbia estrema difficoltà attuale di smantellare una rete informatica che, in molti Paesi, si è in un certo senso evoluta e consolidata. Mentre può essere facile, in un momento di crisi politica, impedire la diffusione delle notizie su carta stampata o “spegnere” il sistema di comunicazione tradizionale (ad esempio: televisioni e radio), sta diventando sempre più difficile per i governi bloccare completamente (e per lungo tempo) il traffico circolante in Internet e smantellare una infrastruttura che sta diventando sempre più indipendente e con “vita propria” (grazie anche a telefonini e strumenti “personali” degli attivisti).

La base di analisi di questo studio è, si diceva, tra le più ampie mai analizzate: ben 75 Stati che vantano una presenza di comunità musulmane significativa, tra cui 48 Paesi dove i musulmani sono la maggioranza (dove almeno il 50% della popolazione è musulmana) e i rimanenti 27 Paesi dove la presenza musulmana è minoritaria (ma conta, almeno, il dieci per cento della popolazione).

Individuato ogni singolo Stato come “oggetto di studio”, l’autore affronta numerosi aspetti: le rivolte, i progetti di e-government e la diffusione della tecnologia (per l’autore è importante comprendere quali di questi Stati siano realmente “online” e che capacità abbia la loro infrastruttura dell’informazione), lo stato dei giornalisti e del citizen journalism, della stampa e delle opposizioni, l’uso di strumenti mobili e del social network, la proprietà dei grandi mezzi di comunicazione, la presenza di “partiti online” (interessante notare, dice lo studioso, se si è in presenza di un’eguale possibilità di accesso alle infrastrutture da parte di tutti partiti). Tutto ciò, insomma, che può condizionare il “livello” democratico di un determinato Stato.

Con riferimento ai partiti online in questi Paesi, Howard nota due fattori: i) se, nel passato, i grandi partiti avevano il monopolio e addirittura, in alcuni casi, “incorporavano” e assorbivano i grandi mezzi di comunicazione, ora per loro è molto più difficile farlo con i media digitali, e ii) nonostante il credo comune, in molti casi i piccoli partiti e i gruppi più radicali di opposizione non sempre riescono a sfruttare al meglio Internet ma a farlo al meglio sono, spesso, quelli stessi grandi partiti che hanno investito negli ultimi anni anche in tecnologia.

Personalmente, la parte che più mi ha interessato è quella finale, dedicata alla censura e al possibile uso delle tecnologie anche per “plasmare” il pensiero e le menti (l’autore dice: “per gestire l’identità collettiva”). Le tecniche per la censura tecnologica sono note, e nota è anche la pericolosità delle stesse. Tali interventi non si limitano alla censura di notizie e al controllo della e-mail: consistono, anche, nella creazione di un vero e proprio sistema modulare di censura tecnologica.

In conclusione, l’approccio dell’autore è moderato e, mi sia consentito, quasi sempre positivo: sostiene, infatti, che, negli Stati che ha analizzato, sembri innegabile che le nuove tecnologie possano portare, e abbiano portato, maggiore “spirito democratico”. Forse un piccolo difetto è che viene trascurato il dark side delle tecnologie in regimi dittatoriali, ossia Howard non si sofferma troppo sugli aspetti negativi delle tecnologie in alcuni Paesi dove si registra, ad esempio, anche un aumentato potere di sorveglianza in capo allo Stato, di controllo dei mezzi di comunicazione, di individuazione e tracciamento di dissidenti o potenziali oppositori al regime.

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