Ogni giorno qualche giornalista, analista, massmediologo, blogger scrive qualcosa sul comportamento dei personaggi pubblici sui social media. Le analisi sono condotte con un tono tra il critico e il sarcastico.

Lo schema di questo tipo di ragionamenti presenta alcune caratteristiche fisse. Si parte con qualche virgolettato preso dal profilo Twitter o Facebook di un vip, spesso ‘colpevole’ di aver usato i propri profili per raccontare alcuni momenti della propria vita privata. A quel punto arriva il giudizio morale di chi scrive, che spesso manifesta tutto il proprio disappunto o disinteresse per quel tipo di aggiornamenti, dichiarandoli inutili. In alcuni casi c’è il racconto di un’ostentata rinuncia alla ricezione degli aggiornamenti di quel personaggio pubblico. Le banalità proferite non meritano ulteriore pazienza e attenzione. La conclusione del ragionamento è sempre lo stesso: i social media si usano diversamente, i personaggi pubblici devono dire qualcosa di intelligente, per forza.

Quando leggo questo tipo di considerazioni resto allibito tutte le volte. Prima di tutto: perché scrivere di qualcosa che si considera banale? Che senso ha dedicare tempo a dinamiche comunicative ritenute poco interessanti?

In secondo luogo: chi ha stabilito che i personaggi pubblici sui social media debbano comportarsi in modo diverso e rispetto agli utenti ‘normali’? Perché se io-utente ho diritto di lamentarmi del lunedì mattina, non può farlo allo stesso modo un altro essere umano a qualsiasi dal suo status sociale? Perché bisogna necessariamente riprodurre fedelmente lo squilibrio e una gerarchia di potere che è tipico delle relazioni pubbliche tradizionali?
Terzo: chi ha stabilito che un certo modo di scrivere, di condividere, di comunicare sentimenti, stati d’animo, abitudini da parte dei personaggi pubblici non sia persino utile agli occhi dei lettori? Una mamma potrebbe provare un sentimento di maggiore empatia (e comprensione) nei confronti di un altro politico che accompagna i suoi figli a scuola, per fare un esempio.
Quarto, ultimo e decisamente più importante: chi obbliga qualcuno a seguire qualcun altro sui social media? Se un utente non è interessante non c’è bisogno di prenderlo a pernacchie pubblicamente attraverso un articolo: basta lasciarlo perdere. Siamo in un contesto mediale così competitivo da non esserci un reale bisogno di restare attaccati a una fonte di informazione in particolare.

Abbiamo un livello di libertà nel reperimento delle informazioni senza precedenti. Perché lamentarsene? Era meglio quando i personaggi pubblici ci parlavano solo attraverso i comunicati stampa o gli eventi pubblici, o venivano paparazzati impunemente, o dovevamo immaginare le loro esistenze attraverso ciò che ci facevano vedere in televisione? A me va bene ciò che vedo. Mi piace vedere come le star scrivono in italiano, quanti puntini di sospensione usano, come rispondono agli utenti, quanto spesso lo fanno, quanto fanno tesoro della relazione con gli utenti per le loro attività professionali. Mi piace far battagliare le mie idee con le loro. Mi piace scoprire le loro debolezza e la loro straordinarietà, i loro difetti di carattere e ciò per cui meritano di avere successo.

Mi piace leggere ciò che accade agli altri (con moderazione) così come mi piace raccontare ciò che accade a me (con moderazione). Mi piace la democrazia della Rete, vera o verosimile che sia. E mi piace che ognuno di noi non provi forzatamente a essere sempre brillante per piacere al pubblico, perché è impossibile. Per cui, certe volte, possiamo dirlo: viva le banalità.

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