In Italia esiste un livello di amministrazione territoriale talmente capillare che si sviluppa in tre gradi (senza contare quello relativo al governo nazionale), che a fronte di una popolazione di circa 60 milioni di abitanti si articola in 8.100 Comuni, 110 Province e 20 Regioni. Ciò significa che, mediamente, a ogni 7.400 cittadini circa corrisponde un Comune, a poco più di mezzo milione di abitanti una Provincia e a 3 milioni una Regione.

Già tali valori fanno sorgere qualche dubbio sulla necessità di questa “sovramministrazione” e sui conseguenti costi che ne derivano e immediatamente viene da pensare che probabilmente rappresenta un eccesso, una ridondanza inutile se non addirittura dannosa in termini economici e di efficienza ed efficacia di risultati concreti e tangibili cui dovrebbe tendere. Ma dove si nasconde questo eccesso? Sono troppi i Comuni, oppure le Province o forse le Regioni?

Ci sarebbe molto da discutere, ma cominciamo con i Comuni e riserviamoci qualche altro approfondimento su Province e Regioni in un prossimo futuro. Come abbiamo già detto in Italia ci sono 8.100 Comuni.

Alcune considerazioni balzano subito agli occhi: la quota più considerevole di Comuni (19,7%) si concentra nella fascia tra 1.000 e 2.000 abitanti e poco oltre il 70% di essi non conta più di 5.000 residenti. In altre parole, l’Italia è il paese delle piccole comunità, piccole e piccolissime comunità, che, si badi bene, contrariamente a quello che molti potrebbero ritenere, sono più presenti al Nord che al Centro-Sud, soprattutto per quanto concerne le piccolissime realtà.

Difatti, mentre al Nord ben il 13,7% dei Comuni presenta una popolazione non superiore a 500 abitanti, al Centro e al Sud tale situazione è molto più contenuta, riducendosi a meno della metà (circa il 6% dei centri conta un numero massimo di abitanti pari a 500). Circa la metà dei Comuni del Settentrione d’Italia (47,4%), si concentra in Comuni di non oltre 2.000 abitanti, contro il 34,9% del Centro e il 40,7% del Meridione.

Ma tale situazione può considerarsi positiva? A tal proposito, viene subito da pensare agli anni ’90 del secolo scorso in cui, a proposito della dimensione aziendale del tessuto imprenditoriale italiano, si diceva che “piccolo è bello”, per scoprire, anni dopo, che il nanismo non lo è affatto, perché procura grandi squilibri e una competitività sui mercati impossibile, perché le capacità contrattuali di chi si presenta sul mercato con un ettogrammo di prodotto è di gran lunga inferiore a quella di chi ne offre un quintale.

E anche in questo caso, difendere a spada tratta l’esistenza e la sopravvivenza dei piccoli enti locali significa essere miopi, non capire che piccolo non è bello e genera più inefficienze e costi che benefici.

Basterebbe fare una semplice considerazione. E’ possibile che il 70,4% dei Comuni, cioè 5.700, debbano amministrare il 17,2% dell’intera popolazione italiana, ovvero poco meno di 10,4 milioni di cittadini, mentre i restanti 2.400 Comuni, pari al 29,6% del numero complessivo di tali Enti locali, debba occuparsi della gestione del restante 83% circa di italiani, corrispondente a pressoché 50 milioni di cittadini? Sembrerebbe esserci una certa sperequazione.

Se poi vogliamo vedere l’economicità dei Comuni più piccoli, rispetto ai maggiori, basta osservare la sottostante tabella (Tab.1). I Comuni con non più di 5.000 abitanti sostengono, complessivamente, il 16,4% dell’intera spesa effettuata da tutti i Comuni italiani, pur rappresentando solo il 10,3% dei Comuni e appena lo 0,4% della popolazione residente in Italia.

D’altra parte, è chiaro come, escludendo il confronto con le amministrazioni locali oltre i 60.000 abitanti, poiché inconfrontabili realtà tanto diverse, con esigenze e fabbisogni di natura tanto diversa, la spesa pro capite raggiunga il culmine degli 834,30 euro proprio nei Comuni più piccoli, contro importi tutti inferiori e variabili tra i 679,30 euro nei centri tra i 5.001 e i 10.000 abitanti e i 757,50 euro nei centri tra i 20.001 e i 60.000. E, anche scomponendo la spesa totale nelle sue diverse componenti (personale, acquisto di beni e servizi, altre spese correnti) in nessun caso la spesa pro capite dei Comuni minori risulta inferiore a quella dei maggiori.

In conclusione, questa breve disamina mette in evidenza come sarebbe il caso di rivedere la struttura amministrativa dei Comuni, indurli a raggrupparsi, a condividere molti servizi, a razionalizzare il personale e a evitare campanilismi senza senso. L’identità di un luogo, delle persone che vi vivono, delle sue tradizioni, non ha bisogno dell’etichetta “Comune”, ma può tranquillamente sussistere, in una comunità più allargata, che consenta di gestire meglio i servizi, senza interferire nelle specificità di ogni Comune che ne faccia parte.

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