Anni fa li chiamavano “Bot people”. Un popolo compatto di piccoli risparmiatori fedeli ai Bot, o buoni ordinari del tesoro, titoli del debito pubblico italiano con scadenza a tre, sei o dodici mesi. Un investimento considerato sicuro che, negli anni ottanta- il periodo d’oro dei Bot – poteva rendere anche più del 15% a fronte di un’inflazione galoppante e di rendimenti dei mercati azionari paragonabili, anche se con rischi molto più elevati. Oggi le cose sono cambiate. A partire dall’estate scorsa i titoli del debito italiano – sotto il costante attacco dei mercati – non sono più considerati un porto sicuro e il popolo dei Bot è disorientato, impaurito e procede a ranghi sparsi.

A dicembre i buoni ordinari del tesoro sono stati collocati al tasso record del 5,925%. Nell’asta di giovedì 12 gennaio il rendimento si è dimezzato, scendendo al 2,735%. Per chi riesce a tenere i titoli fino alla scadenza – se si esclude l’ipotesi improbabile di insolvenza a breve dello stato italiano – il problema non si pone: lo stato paga il tasso collegato al titolo: il 5,9% nel caso dei Bot di dicembre o il 2,7% per quelli collocati ieri. Ma chi ha la necessità di smobilizzare i titoli prima, può andare incontro a perdite di valore anche rilevanti, a causa della volatilità dei mercati del debito.

Il problema si pone in modo più serio per i Btp, buoni del tesoro poliennali, che hanno scadenze più lunghe: 3, 5, 10 anni. Se non si ha la necessità di venderli prima della scadenza si possono intascare regolarmente le cedole (semestrali), che oggi sono molto elevate, grazie a rendimenti annuali in asta che sfiorano o superano il 7% (per i titoli decennali). Ma se nei tre, cinque o dieci anni, per qualsiasi ragione (spese sanitarie, acquisto casa, ecc..) si ha la necessità di smobilizzare i titoli prima della scadenza, si rischia di perdere una parte rilevante delle somme investite perché, nel frattempo, il prezzo può scendere, anche del 5-10%. Nel lungo periodo è inoltre relativamente più probabile che lo stato italiano vada incontro a un default, non riuscendo ad onorare in tutto o in parte il debito a scadenza.

Che alternative ci sono, quindi, per il risparmiatore prudente che voglia difendersi dall’inflazione senza correre grandi rischi? “Chi vuole essere sicuro di non vedere scendere il valore di quanto ha messo da parte fa bene a sottoscrivere Buoni fruttiferi postali indicizzati all’inflazione”, consiglia il professor Beppe Scienza, docente di matematica all’Università di Torino (e blogger del fattoquotidiano.it) sul mensile Club3 (www.vivereinarmonia.it). “La serie offerta nel dicembre 2011 è la migliore da quando esistono (febbraio 2006) e validissima in assoluto, perché protegge da perdite del potere d’acquisto per quanto alto sia il tasso d’inflazione in Italia. L’unico vero limite dei Buoni fruttiferi, a parte il rischio Italia, è che rivalutazioni e interessi sono congelati per 18 mesi: riscattandoli prima, si riceve solo quanto si è versato, per altro sempre senza nessuna spesa o commissione”. In alternativa – dice ancora Scienza – ci sono i titoli tedeschi agganciati al costo della vita. “Ne esistono due (Dbr-ei 1,5% 2016 e Bund-ei 1,75% 2020), che rendono logicamente meno degli omologhi italiani, ma sono ritenuti molto meno esposti al rischi di insolvenza da parte dell’emittente”.

E se i buoni postali dovessero andare male? “La possibilità c’è”, spiega Scienza sul blog cadoinpiedi.it. “Si verificherebbe nel caso in cui la situazione degenerasse e lo stato italiano finisse per essere insolvente. Questo però non può capitare nel giro di 10 giorni, ma tra qualche mese o anno, in una situazione generale di fallimenti di Stati, di fallimenti di banche”. “In caso di default i piccoli investitori sarebbero comunque più tutelati, più difesi di quelli grandi. Se uno ha 20 mila Euro, anche in caso di un fallimento dello Stato, otterrà quasi sicuramente di più in proporzione di chi ha 2 milioni di Euro, perché gli Stati in questi casi – si è visto in passato anche con l’Argentina – cercano di trattare un po’ meno peggio il piccolo, per ovvi motivi sociali e politici.”

Per chi vuole evitare il rischio-paese rimane la possibilità di comprare titoli di Stato in euro con rating tripla A di paesi come Germania, Austria, Finlandia, Olanda. Ma i loro rendimenti sono oggi molto bassi e, nella maggior parte dei casi, non proteggono dall’inflazione. L’unica eccezione, per ora, sembrano essere i buoni del Tesoro francesi, considerati dagli investitori più rischiosi rispetto alle altre emissioni con la tripla A e che, nelle scadenze più lunghe a 20-30 anni, riescono ancora a spuntare tassi netti vicini al 3%.

E i conti di deposito? Anche se pubblicizzano rendimenti lordi elevati (fino al 4-4,5% per somme vincolate a 12 mesi), in realtà, al netto della ritenuta fiscale (pari al 27% fino al 31-12-2011, il 20% da quest’anno), nel 2011 non sarebbero riusciti a battere l’inflazione. “I vari conti Arancio, Chebanca, Rendimax, Ibl, Santander, Barclays e gli altri meno diffusi, nel 2011 hanno fruttato meno dell’inflazione”, precisa Beppe Scienza. “Mediamente hanno infatti corrisposto circa il 4,10% lordo (2,99% netto, ndr), non riuscendo quindi a coprire il tasso d’inflazione, che per il 2011 si collocherà intorno al 3%”.

L’alternativa etica

In un periodo di grande incertezza sui mercati azionari e obbligazionari, nel quale i cittadini si fidano sempre meno delle banche e dei titoli di stato, cresce invece il numero di risparmiatori che si affidano alla finanza etica. Banca Popolare Etica (www.bancaetica.com), che ha sede a Padova e filiali e promotori in tutta Italia, ha chiuso il 2011 registrando per il terzo anno consecutivo una crescita a due cifre nei volumi. +11,7% per la raccolta di risparmio rispetto al 2010 e +23,9% per i crediti erogati, oggi pari a 540,8 milioni di euro. E ciò nonostante i prodotti di Banca Etica abbiano rendimenti inferiori al tasso di inflazione: l’ultimo prestito obbligazionario rende l’1,40% netto, i certificati di deposito a 12 mesi lo 0,68%.

La banca raccoglie i risparmi per concedere prestiti esclusivamente in quattro settori (e principalmente ad associazioni non profit): cooperazione sociale, cooperazione internazionale, ambiente e società civile. Tutti i crediti concessi, con il dettaglio degli importi e i nomi dei beneficiari, sono pubblicati online, sul sito della banca, in modo trasparente. “Siamo l’unica banca in Italia a farlo”, spiega Ugo Biggeri, presidente di Banca Etica. “Soprattutto in un periodo come questo, moltissimi risparmiatori attribuiscono alla trasparenza sull’uso del denaro e all’effettiva possibilità di finanziare con i propri risparmi progetti ad alto valore sociale e ambientale nell’economia reale un valore superiore al semplice rendimento”, spiega Ugo Biggeri al fattoquotidiano.it. “Chi affida i suoi risparmi a Banca Etica vuole essere protagonista delle proprie scelte finanziarie e non abbocca agli specchietti per le allodole degli istituti che, a caccia di liquidità, promettono alti rendimenti derivanti da attività speculative a scapito del sostegno all’economia reale. Oggi non sono solo i Governi a dover fare la propria parte, ma anche i risparmiatori devono diventare consapevoli che con le loro scelte di risparmio decidono quale tipo di economia sostenere”.

Articolo Precedente

La balla della settimana:
le banche e il fisco

next
Articolo Successivo

Il panettiere di Cortina

next