Costituzione alla mano, L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Eppure nella dotta e grassa Bologna pare che un articolo basilare del nostro ordinamento stia perdendo lentamente di valore, laddove si beve e si mangia a scapito di lavoratrici e lavoratori, costretti ormai a stipendi miseri e a vedere i propri diritti come un lontano miraggio. Stiamo parlando di tutti quei camerieri, lavapiatti, baristi, aiuto cuochi e vari dipendenti nel settore della ristorazione che vengono risucchiati da un precariato latente quanto agghiacciante, capace di relegarli in un lavoro mal retribuito, sfruttato che si traduce molte volte, in un uso massiccio del lavoro nero che nella maggior parte dei casi, non supera i 4-5 euro l’ora. Per opporsi a queste condizioni di sfruttamento che attanagliano il mondo della ristorazione, nasce Bologna del lavoro, una campagna realizzata da alcuni dipendenti nel settore della ristorazione, desiderosi di cambiare lo status quo della loro situazione lavorativa.

“A Bologna si mangia e si beve sui diritti dei lavoratori” si legge sul profilo Facebook della campagna, nato per raccogliere denunce contro il lavoro nero e sottopagato, che, fino ad ora, ha visto l’adesione di più di 400 persone. Obiettivo primario della protesta, quello di tracciare una nuova strada all’interno di logiche lavorative spesso perverse, in un settore che vede un livello di sindacalizzazione pressoché nullo. Così, dopo diversi volantinaggi a tappeto per le vie del centro, nei ristoranti simbolo della Bologna godereccia, verranno create due diverse liste. La prima andrà a delineare tutti i ristoranti buoni. L’altra invece, prenderà le sembianze di una lista nera, in cui figureranno ristoranti e trattorie cattive, ovvero da bollino rosso. Tradotto, non rispettosi di quei sani principi alla base di qualsiasi rapporto lavorativo che si rispetti.

“L’idea è nata – racconta Stefano, uno degli ideatori della campagna – dopo una mia esperienza lavorativa presso un ristorantino del centro, noto per i suoi prezzi popolari. Lavoravo con un contratto a chiamata per cui percepivo 600-700 euro al mese. Dopo pochi giorni però mi sono accorto che c’era qualcosa che puzzava. Perché i gestori servendosi del contratto a chiamata, spesso e volentieri segnavano meno ore lavorative di quelle effettive, così il resto che mi spettava mi veniva dato in nero”. Ma c’è di più. Perché durante i giorni trascorsi all’interno del ristorante come cameriere, Stefano ha potuto appurare che la situazione accomunava anche chi lavorava con lui. “Ho capito immediatamente che la formula del contratto a chiamata  si tramutava pressoché in lavoro nero per tutti quanti i dipendenti. Un mio collega mi raccontava che venivano chiamati in prova per due giorni alcuni lavapiatti. Alla scadenza, non venivano pagati, se non con un piatto di minestra, e gli veniva dato il ben servito. E così ne venivano chiamati altri due”.

L’abitudine del contratto a chiamata riguarda ormai buona parte della ristorazione bolognese e i lavoratori con tale tipologia contrattuale non dovrebbero superare, per legge, il 20% del totale dei dipendenti. Ma nella realtà non si traduce nello stesso modo. Vi sono gestori di locali che attivano contratti a chiamata all’80% dei dipendenti, segnando meno ore di quelle effettive. In questo modo se arriva un controllo dell’ispettorato del lavoro sono ‘in regola’.

“Quando accetti queste condizioni che calpestano qualsiasi diritto – continua Stefano – significa che il bisogno di lavoro è talmente alto che non osi rinunciarci. E non denunci nulla. Perché in situazioni lavorative così precarie, il livello di omertà è altissimo. Un’omertà che nasconde una folle paura di perdere il lavoro”. Proprio per cercare di oltrepassare questo silenzio assoluto, per cui risulta impossibile fare leva sui dipendenti, la protesta da bollino rosso cercherà di coinvolgere i clienti stessi, indicando loro la retribuzione effettiva dei camerieri che li servono, magari nel ristorantino sotto casa, con dei volantinaggi a tappeto.

“Agendo in questo modo – precisa Stefano – i locali che non rispettano i diritti fondamentali dei lavoratori rischia di perdere i propri clienti in una sola serata”.  Alla protesta si affiancherà l’azione dei sindacati, Filcams-Cgil e il sindacato di base, e che andrà ad incidere anche sull’ispettorato del lavoro stesso affinché, dopo varie segnalazioni, vengano eseguiti controlli mirati. La campagna vede nel cuore della propria azione, la chiara volontà di smascherare realtà lavorative che vivono nel confine tra legalità e illegalità, per creare un settore economico con maggior rispetto delle condizioni lavorative, con più posti di lavoro e con il rispetto del contratto nazionale del commercio.

Parlando con alcuni gestori dei ristoranti del centro, da via del Pratello a via Mascarella,  appare chiaro come la palla rimbalzi dai ristoranti che rifiutano il lavoro nero “perché non sanno nemmeno cos’è” a chi non crede “nella demonizzazione di un’intera categoria perché è più facile parlare dei cattivi che dei buoni”. Insomma in poche parole, nella campagna attuata dai lavoratori precari della ristorazione, alcuni gestori nutrono qualche dubbio circa la possibilità di successo dell’iniziativa. E sottolineano che “queste manifestazioni di protesta nascono già pregiudiziali nei confronti della categoria dei ristoratori”. Ma come vuole confermare la regola, esistono eccezioni.

Alcuni ristoranti del centro, a differenza di altri, hanno già abbracciato l’iniziativa, attaccando alle proprie vetrine i volantini di “Bologna del lavoro” e contribuendo al finanziamento per la realizzazione di altri adesivi che verranno distribuiti in maniera capillare prossimamente per le vie del centro. Una forma di solidarietà che risponde appieno al desiderio iniziale che si propongono gli ideatori dell’iniziativa, nel creare realmente un’alleanza con i gestori, dando vita così ad una sorta di ‘piattaforma comune’.

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