Volendo parafrasare, per contrasto, le antiche e poetiche note che Claudio Ferretti dedicò, via radio, al campionissimo Fausto Coppi (Giro d’Italia del 1949, tappa Cuneo-Pinerolo), così potrebbe esser descritto, tagliato il traguardo del New Hampshire, l’andamento della corsa delle primarie repubblicane: “…un uomo solo è al comando, la sua maglia è senza colore e senza colore è il suo carisma. Il suo nome è Willard “Mitt” Romney…ed a lui quasi certamente toccherà, il prossimo novembre, sfidare Barack Obama nella corsa per la Casa Bianca… “.

Analogie e differenze. Come Fausto Coppi nella super-tappa del ’49, anche Romney è, riuscito ad arrivare là dove nessuno – nemmeno il beato Ronald Reagan – era, prima di lui arrivato. Ovvero: è riuscito a vincere – con un uno-due da molti politologi ritenuto decisivo – in Iowa e in New Hampshire. Ma tutto indica che, contrariamente a Fausto Coppi, ben difficilmente riuscirà, grazie a questa impresa – premessa d’una ormai quasi certa nomination – ad entrare nel mito. E più che certo, in ogni caso, è che – finisca come finisca la battaglia delle primarie – l’entusiasmo che oggi circonda l’irresistibile marcia dell’ex governatore del Massachusetts appare, nel variegato mondo della destra americana, molto simile a una sorta di angosciata perplessità,  marcata da un implicito, ma udibilissimo quesito: possibile che non si trovi un’alternativa?

Ovvia domanda: per quale ragione un tanto sbiadito concorrente sembra destinato a vincere – e vincere per distacco – la battaglia per la nomination repubblicana? Rispondere è facilissimo e, al tempo stesso, estremamente difficile. Facilissimo perché dietro Romney non c’è alcun Bartali. O, fuor di metafora, perché proprio questo – l’incolore Mitt Romney – è, con tutta evidenza, il meglio (o il meno peggio) che passa oggi il convento del Grand Old Party. E nel contempo molto difficile, perché alquanto complicato è, in effetti, mettere a fuoco il panorama nel quale questo “meno peggio” è, nell’ultimo anno, venuto tanto poco trionfalmente avanzando. Gli storici – o, per meglio dire, quella specifica e molto ferrata branca della storiografia presidenziale che analizza la relazione tra voto e situazione economica – non danno a Barack Obama, cifre alla mano, alcuna via di scampo. In questi chiari di luna – difficilmente illuminabili nei prossimi dieci mesi, nonostante qualche confortante dato nelle ultime settimane – le possibilità di rielezione del presidente in carica sono di fatto, affermano, assai prossime allo zero. E in campo repubblicano grande dovrebbero in teoria essere, specie dopo i trionfi nelle elezioni di mezzo-termine, l’ansia di partecipazione, e la qualità, degli aspiranti alla presidenza. E invece…

E invece tutto quello che il partito è riuscito a mettere assieme non è – con la sola, ma assai insipida eccezione di Romney – che un patetico assemblaggio di (prevalentemente) vecchie e nuove facce tutte accompagnate dalla scritta “unelectable”, ineleggibile. Anche Mitt Romney era (e resta) in realtà – nonostante il suo patetico tentativo di presentarsi come un “uomo d’affari”, guidato soltanto dalla “invisibile mano” del mercato – un vecchio (e spesso perdente) arnese della politica (avremo modo di raccontare più in dettaglio la sua storia). Entrato carico di danari come grande favorito nella corsa del 2008, Mitt era stato infine battuto da un candidato – il 72enne John McCain, dato per morto ancor prima che la contesa ufficialmente partisse – la cui principale virtù era per l’appunto, agli occhi dei votanti repubblicani, quella di non essere Romney…

Mitt Romney, semplicemente, non piace. Non piace ai conservatori più accesi. Non piace ai libertari (o a quella molto americana versione dell’idea libertaria, che detesta ogni potere, tranne quello economico). Non piace nemmeno ai moderati. Non piace perché tutti – conservatori, libertari e moderati – lo considerano un surrogato, una bambola gonfiabile, un campione di non-autenticità. Non piace al punto che, anche stavolta, la ricerca del non-Romney è stato l’elemento centrale della lunga stagione delle pre-primarie. A turno, i sondaggi hanno concesso a tutti una chance. Ma soltanto a uno – al primo, Rick Perry, governatore del Texas – con una almeno teorica possibilità di successo, peraltro subito dissoltasi al calore di due convergenti fattori: la goffaggine esibita da Perry in tutti i dibattiti e un inatteso (da Perry) attacco “da destra” in materia di politica immigratoria (Romney e gli altri lo hanno spellato vivo, davanti alle telecamere, perché, in Texas, non aveva – orrore! – vietato l’accesso alla scuola ai figli degli immigrati illegali). Tutti gli altri – Ron Paul (il cui caso tuttavia, merita un discorso a parte), Herman “9-9-9” Cain, Gingrich, Santorum…) – non sono in effetti stati che “flashes in the pan”, brevi miraggi, effimere prove di quella che, dietro i “trionfi” di Romney, resta la più ovvia verità di questo processo elettorale. Un anno fa, quando la corsa cominciò a delinearsi, Romney aveva, tra i potenziali elettori repubblicani, il 25 per cento dei consensi. Ed al 25 per cento è oggi. Ha sconfitto, uno dopo l’altro, tutti i suoi rivali, ma non ha fatto un solo passo avanti.

Mitt Romney, insomma, continua a non piacere. Ed il prossimo novembre proprio questo potrebbe, oltre la cronaca, essere l’elemento decisivo…

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