Ci sono notizie che fanno cadere le braccia. Specialmente a chi, come me, si occupa di lavoro, precariato, disoccupazione. Una di queste notizie è oggi sulla Provincia di Varese. Racconta di una azienda di Sesto Calende – la Lascor – con 550 dipendenti, di cui circa 350 a tempo indeterminato e 200 precari. Una volta tanto, racconta di un’attività non in crisi, ma al contrario in crescita. E racconta la trattativa tra la proprietà e i sindacati non per un piano di licenziamenti e cassa integrazione, bensì per un piano di incremento del lavoro.

L’azienda, stando alla cronaca, mette sul tavolo due vantaggi, uno individuale e uno collettivo. Il vantaggio individuale sta nell’aumento degli stipendi: tra 300 e 400 euro in più per ciascuno. Il vantaggio collettivo – “sociale”, direbbe qualcuno – sta nella stabilizzazione dei precari: l’azienda si impegna a passarli tutti a tempo indeterminato.
In cambio, però, i lavoratori devono mettere in condizione l’impresa di fare fronte ai maggiori ordini, aumentando la produttività. Passando cioè al “ciclo continuo”, il che vuol dire in effetti fare turni più scomodi e non avere la sicurezza di stare a casa la domenica o i giorni festivi. «L’accordo prevedeva quattro giorni di lavoro più due di riposo, comprendente alcune domeniche, circa la metà del totale e i giorni festivi» riassume l’articolo della Provincia.

I sindacati hanno trattato, l’accordo è pronto, manca solo la ratifica. Ma il referendum tra i lavoratori sorprende tutti: su 433 votanti, 262 dicono no. Oltre il 60% boccia quindi l’accordo. «Sei lunghi mesi di trattative con l’azienda sono andati in fumo in un pomeriggio», chiude l’articolo: «i sindacati non nascondono lo choc». Tradotto, il “no” porta in sé due chiari messaggi. Il primo all’impresa: non ci interessa che tu abbia più commesse, non ci interessa contribuire alla crescita del business, consolidando così la realtà aziendale. Non abbiamo intenzione di intensificare il lavoro, nemmeno a fronte di un aumento dello stipendio. Preferiamo qualche euro in meno, ma la certezza di passare tutte le domeniche a casa.

Questa posizione, seppur poco lungimirante, potrebbe perfino essere accettabile. Ma è il secondo messaggio ad essere indegno. Perché è rivolto a 200 precari. 200 persone che non godono della stabilità e della sicurezza dei 350 assunti. 200 persone che vivono con quella che Ascanio Celestini chiama «la bomba a orologeria sotto la sedia», la data di scadenza del contratto, e con l’ansia che non venga rinnovato. A quei 200 colleghi, con cui ogni giorno vengono spartiti spazi, sudore, pasti, pause, la maggioranza dei lavoratori ha detto: sono problemi vostri. Arrangiatevi. Noi non lavoreremo una domenica su due perché voi possiate ottenere il contratto a tempo indeterminato. Non a caso un altro articolo di un quotidiano locale, Varese News, predice che il risultato del referendum «aprirà sicuramente una riflessione all’interno del sindacato (la Rsu si riunirà tra pochi giorni) perché la vittoria netta del “No” è un segnale chiaro di mancanza di solidarietà nei confronti dei lavoratori precari che, se l’intesa fosse stata approvata, sarebbero stati assunti. Il ciclo continuo, inoltre, riguardava solo la produzione a monte dell’azienda, per un totale di circa 60 lavoratori».

Ci saranno sicuramente puristi che diranno che non è così, che non bisogna contrapporre i lavoratori garantiti e gli outsider, che è stata l’azienda a sbagliare legando l’aumento della produttività alle stabilizzazioni e quindi realizzando una sorta di ricatto.
Ci saranno sicuramente i dietrologi che diranno che magari gli articoli non ce la raccontano tutta giusta, che forse le condizioni imposte dal “ciclo unico” erano talmente inaccettabili da rendere irricevibile la proposta, anche a fronte di un vantaggio enorme come la stabilizzazione di 200 lavoratori a termine. E addirittura qualcuno insinuerà che tra i 262 che hanno votato “noo”  vi sia stato anche qualche precario.

Purtroppo però, nel silenzio dei grandi media, ancora una volta l’Italia mostra un volto gretto, miope, conservatore nel senso peggiore del termine. L’azienda è svizzera. Forse deciderà di chiudere, tornare in patria, o andare da un’altra parte. Se così fosse, qualcuno potrebbe biasimarla?

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