Ho mangiato il mangiabile in queste feste che mi hanno visto fermo in casa per questioni familiari. Nell’alzarmi tardi mi sono fatto colazioni consolatorie con di tutto e di più, dalle schiaccine del forno sotto casa con un grondante stracchino a dolci prosciutti non esattamente a chilometro zero e pizze in teglia che quel mal-benedetto panettiere, con quella sua unicità di pasta friabile negli alti bordi ma bagnatissima di un semplice e misurato pomodoro, sforna sempre in un azzardo non raggiunto di sale. Cuccume di té forte, dove a un Kenia aggiungo sempre un dieci percento di un garbatamente affumicato Lapsang, così tanto per non farmi sentire la nostalgia di tutto il caffè che ho bevuto per le mie prossime tre vite e che, giocoforza, mi è stato suggerito di abbandonare, almeno fino al mio ottantottesimo compleanno, dove mi riapproprierò di un toscano al giorno che scadenzerà il tempo, con lo sguardo a un mare da un qualche convento ortodosso, che in qualità di cuoco mi vorrà ospitare, così per mantenere la loro abitudine del trascrivere tutto intorno alle cucine. E io, approfittandone, mi berrò, fumando, i loro neri e forti caffè, con i piedi e gli stinchi immersi nel placido mare di Melina.

Si sa che le vacanze sono sempre tappezzate, come la strada per l’inferno, di buone intenzioni che mi avevano fatto ripetere più volte che non avrei dovuto mangiare niente a pranzo, anche perché a cena… E così l’altro giorno, lasciando la persona che amo con la mano nell’amata mano dell’uomo che l’ha generata costretto in un letto, ho camminato fin sotto casa di quella Santa donna che a sua volta mi ha generato in tutti i sensi. Ed è lì che, per me e per il mio primogenito che non si lascia mai sfuggire l’occasione, mia madre ha fritto, con l’orologio che batteva il mezzogiorno, bollentissime polpettine di un impasto con patate passate in un lesso avanzato e tritatissimo e fatto riposare per una notte dopo averlo amalgamato con tuorli d’uovo e, questo è il segreto, le rispettive chiare amalgamate a neve, più una piccolissima dose di besciamella ricchissima di parmigiano. La scorza di un buon limone grattugiato, il solito non niente di noce moscata, un piccolissimo spicchio d’aglio tritato e pochissimo prezzemolo avevano lavorato all’alchimia nel freddo riposo di questo meraviglioso impasto. Fritte, dopo averle arrotondate e infarinate, in un bellissimo olio, mi riportano sempre alla bellezza della vita. E l’altro giorno mi hanno fatto correre verso quel letto dove, seduta accanto, sospesa nel tempo, mia moglie imboccava tutti gli uomini della terra. E io le offrivo, perché ne facesse buon uso, tre di queste polpette che mantengano il segreto, se non della resurrezione dei corpi, dell’elevazione degli spiriti.

Articolo Precedente

L’anno zero del no al cancro (a tavola)

next
Articolo Successivo

Stagioni in tavola – gennaio: in salute con le rape rosse

next