Nelle terze pagine dei giornali italiani si può leggere con una certa frequenza dei record delle aste, di ‘scoperte sensazionali’ (quasi sempre inenarrabili sciocchezze, tipo: ‘Leonardo era un templare transessuale’; ‘Leonardo è l’autore della Sindone’; ‘abbiamo ritrovato le ossa di Caravaggio’, e così via), di furti clamorosi, di restauri ‘rivelatori’, e soprattutto di mostre (e possibilmente di ‘grandi mostre’, anzi di ‘grandi eventi’) celebrate in pagine a pagamento che vengono spacciate per libere critiche.

Ma il genere senz’altro più gettonato è quello delle attribuzioni: e più clamorose e improbabili sono, meglio è. La palma del 2011 va, ex aequo, all’Espresso e al Domenicale del Sole 24 ore. Il primo ha addirittura sbattutto in copertina la ‘vera’ Visione di Ezechiele di Raffaello, che avrebbe dovuto sbugiardare la versione conservata a Palazzo Pitti a Firenze: un capolavoro di superficialità giornalistica risoltosi in una bolla di sapone, visto che gli argomenti erano inconsistenti e il ‘nuovo’ quadro era evidentemente una copia. Il secondo ha invece sparato nientemeno che un nuovo Caravaggio: anzi, un Caravaggio finalmente «provato» da documenti incontrovertibili. Spocchia decisamente fuori luogo, visto che il Sant’Agostino (rigorosamente sul mercato antiquario) è sì un gran bel quadro, ma dipinto quando il povero Caravaggio era cenere da decenni.

Per elementare par condicio, il 2012 è stato inaugurato dal Corriere della Sera, che domenica scorsa ha sparato, sul supplemento La Lettura, una bufala coi controfiocchi: nientemeno che un marmo di Gian Lorenzo Bernini! Per gli addetti ai lavori la ‘notizia’ era invero vecchiotta: del 2010. In quell’anno lo studioso calabrese Mario Panarello aveva pubblicato e attribuito – per la verità con molta cautela – a Bernini la testa frammentaria di una Santa Caterina da Siena proveniente dalle rovine del famoso convento domenicano di Soriano Calabro, distrutto da un terremoto nel 1783 e tuttora ridotto a un pittoresco rudere. E Panarello ha davvero l’indubbio merito di aver scavato, studiato e musealizzato questi lunari reperti di archeologia barocca.

Ma l’attribuzione a Gian Lorenzo Bernini è semplicemente sbagliata, perché il pezzo non ha né la qualità, né lo stile del massimo scultore del Seicento europeo. E fin qui, siamo nella fisiologia della disciplina storico-artistica, che avanza anche grazie alle attribuzioni sbagliate.

Quello che non funziona è il tono grottescamente trionfalistico del pezzo del Corriere. Panarello viene arruolato – con un certo ottimismo – tra «i principali specialisti» dell’arte della Roma barocca. La scoperta, immancabilmente definita «clamorosa», sarebbe stata «documentata» (il che non è). Il colpo di Panarello è «magistrale», ed è ovviamente una vergogna che egli sia ancora un docente universitario precario (il che magari è verissimo, ma non certo per questa imbarazzante attribuzione).

L’autore dell’articolo, Carlo Vulpio, è uno specchiato cronista di giudiziaria che ha anche pagato un prezzo per poter fare un vero e libero giornalismo di informazione. Ma perché passare ad occuparsi di una materia della quale non sa palesemente niente, come la storia dell’arte?

Forse perché la storia dell’arte non è una cosa seria: la copertina della Lettura del 18 dicembre scorso diceva che «l’arte fa passare bene il tempo». Per secoli abbiamo pensato che l’arte servisse a formare i cittadini, a costruire la comunità civile, a edificare e diffondere la dignità umana: ma ci eravamo sbagliati, l’arte serve a passare bene il tempo.

E per passare bene il tempo, cosa c’è di meglio che lanciare una simpatica bufala attributiva? E tanti saluti all’informazione.

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