Si vota per le primarie repubblicane in New Hampshire e gran parte dell’attenzione, più che sul vincitore, si concentra su chi si piazzerà al secondo o terzo posto. I sondaggi non lasciano molti dubbi. Mitt Romney guida tutte le previsioni. Il New York Times lo dà al primo posto con il 39,3% dei consensi. Dietro di lui Ron Paul, Jon Huntsman e Rick Santorum. E’ proprio sulla base di chi tra questi riuscirà ad avvicinarsi maggiormente a Romney, che dipende molto della campagna presidenziale repubblicana. Il New Hampshire, che porta alla Convention repubblicana soltanto 12 delegati (su un totale di 2286), ha una storia di antica indipendenza e di fortune politiche create (o distrutte) in una notte. E’ qui che, nel 2008, John McCain ribaltò tutti i pronostici e iniziò la sua corsa alla nomination (e in New Hampshire Hillary Clinton conquistò una deludente vittoria, presagio della futura sconfitta contro Barack Obama). E’ qui che Ronald Reagan nel 1980 cancellò dalla mappa politica George Bush senior. Ed è ancora a partire dal New Hampshire che maturò la clamorosa decisione del democratico Lyndon Johnson di ritirarsi dalla corsa presidenziale del 1968.

Questa volta non dovrebbe andare così. “Le noiose primarie del New Hampshire”, le ha chiamate la rivista The New Republic, a definire l’apparente, schiacciante vantaggio di Romney. Eppure il sentimento “di noia” potrebbe trasformarsi in qualcosa di molto più interessante. Se solo, per esempio, Romney non ottenesse quella larga vittoria che tutti si aspettano (e che la mole di dollari spesi nella sua campagna lascia prevedere), si scatenerebbe con ogni probabilità la ricerca di un candidato alternativo. Se solo gli sfidanti più accreditati uscissero rafforzati dal New Hampshire, la sfida si trasferirebbe, con una più elevata dose di suspence, in South Carolina (il prossimo Stato a organizzare le primarie, il 21 gennaio, con una base cristiana e conservatrice poco in sintonia con Romney). La cosa vale anzitutto per Ron Paul. Il candidato libertarian è l’unico tra gli sfidanti repubblicani a Romney a poter contare su un seguito compatto e omogeneo in tutto il Paese. In Iowa ha dovuto cedere il secondo posto a Santorum (college e università erano ancora chiusi per le vacanze di Natale, e a Paul è venuto a mancare il voto giovanile, per lui fondamentale). In New Hampshire le cose dovrebbero andare meglio (le previsioni lo danno tra il 17 e il 20%). In queste ultime ore il 76enne deputato del Texas ha preso di mira con particolare veemenza proprio Santorum (definito “corrotto candidato conservatore”) e ha approfondito il suo messaggio anti-establishment: radicale riduzione del governo federale, una politica estera non-interventista e anti-militarista (Paul è contrario a sanzioni contro l’Iran e chiede un minor coinvolgimento degli Stati Uniti nella difesa di Israele), il passaggio ai singoli Stati di questioni come matrimoni gay e aborto.

“Il partito repubblicano non eleggerà mai un candidato come Paul”, diceva alcuni giorni fa un esperto di cose repubblicane (e repubblicano lui stesso), David Frum. La cosa è probabilmente vera, e lo stesso Paul lo sa molto bene. La nomenclatura del partito farà di tutto per bloccare l’ascesa di un candidato che ne metterebbe a rischio la presa sul governo federale e i legami con l’apparato industrial-militare. Un buon risultato in New Hampshire potrebbe però consentire a Paul di seguire una più fruttuosa strategia di lunga durata. Concentrando le forze negli Stati dove i delegati vengono assegnati con metodo proporzionale, ritirandosi da quelli (come la Florida) in cui l’investimento supera il probabile ritorno, Paul spera di arrivare alla convention di Tampa, il 27 agosto, con un numero di delegati tale da influenzare la futura piattaforma del partito. L’altro candidato per cui il New Hampshire appare fondamentale è ovviamente Jon Huntsman. L’ex-ambasciatore di Obama in Cina ha puntato tutto sul Granite State (dove ha totalizzato la cifra record di 155 apparizioni tra comizi, eventi, dibattiti negli ultimi sei mesi). Il suo conservatorismo laico e moderato – nella tradizione di Nelson Rockfeller – sembra fatto per compiacere gli elettori repubblicani di uno Stato del nord-est. Il suo appello bipartisan, volto ad attenuare i toni dello scontro politico, risulta invece gradito agli indipendenti (che in New Hampshire possono votare alle primarie). E’ per esempio piaciuta, dicono i sondaggi, la risposta che Huntsman ha dato a Romney nel corso di un dibattito, sabato scorso. A Romney che lo accusava di aver “servito” sotto un presidente democratico, Huntsman ha risposto: “Mentre tu eri in giro a raccogliere fondi elettorali, io servivo il mio Paese. Come d’altra parte hanno fatto i miei due figli nell’esercito” (allusione al fatto che quelli di Romney sono invece rimasti a casa).

Nelle ultime ore Huntsman ha raggiunto l’11% delle preferenze, e i sondaggi lo danno in ascesa. Un buon piazzamento gli porterebbe maggiori finanziamenti (che sinora sono mancati) e la possibilità di sfidare Romney sul suo stesso terreno: quello di un’alternativa centrista, da establishment, a Barack Obama. Huntsman potrebbe anche contare sugli elementi di novità e freschezza della sua candidatura. In un momento in cui il 44% dell’elettorato repubblicano esprime ancora dubbi e riserve sul parco candidati (fonte Politico.com), una figura come quella dell’ex-ambasciatore in Cina, relativamente poco conosciuta al grande pubblico, può risultare particolarmente gradita alle folle di americani stanchi di Washington e dei professionisti della politica. C’è infine un altro elemento che dovrebbe far dormire sonni molto poco tranquilli a Romney. Sull’ex-governatore del Massachusetts sta per abbattersi “la bomba Bain”: il resoconto impietoso delle compagnie acquistate e smembrate – e dei lavoratori licenziati – ai tempi della Bain Company, la società di private equity da lui fondata negli anni Ottanta. I democratici ci stanno insistendo da settimane. E Newt Gingrich avrà a diposizione più di 3 milioni di dollari in spot elettorali, in South Carolina, per attaccare le presunte passate malefatte del suo avversario. In tempi di furori populistici, l’accusa di essere stato un “fat cat” di Wall Street, un ricco e insensibile privilegiato, sembra fatta apposta per “scollegare” ancor più un candidato già così poco in sintonia con il sentire della maggioranza del suo stesso partito.

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