E’ una storia di malafinanza. Di manager spregiudicati e banchieri rapaci. E’ la storia della Ferretti, grande azienda di Rimini che fabbrica yacht e dà lavoro a circa 1.900 persone in una decina di stabilimenti.  Da oggi questo gioiello dell’industria nazionale non è più italiano. L’hanno comprato i cinesi, il gruppo Shandong Heavy industries. E forse questo è il male minore perché la società romagnola stava per fallire travolta dai debiti.

Una vicenda come tante, si dirà, in questi tempi di recessione. E invece no, perché il triste declino della Ferretti c’entra poco con la crisi del mercato della nautica. In realtà la vendita ai cinesi è il risultato di dieci anni di scorribande finanziarie che hanno devastato i bilanci dell’azienda. Si comincia nel 2000 quando Ferretti sbarca in Borsa valutata 375 milioni di euro. Passano meno di tre anni e il fondo Permira se la compra per 675 milioni per poi rivenderla nel 2006 al prezzo di 1,7 miliardi a un altro fondo britannico, Candover. Nel frattempo il fatturato del gruppo aumenta fino a superare il miliardo di euro.

Tutte queste operazioni hanno una caratteristica in comune. Le acquisizioni sono state finanziate caricando di debiti l’oggetto stesso della compravendita, cioè Ferretti. In gergo tecnico si chiama leveraged buy out, una delle specialità dei banchieri riveriti e strapagati negli anni della grande bolla finanziaria. Solo che nel 2009 il mercato rallenta e Ferretti, schiacciata sotto il peso degli interessi da pagare alle banche, non riesce a far fronte alla crisi. Nel frattempo i finanzieri dei fondi di private equity sono già passati all’incasso per spartirsi decine di milioni tra bonus e premi vari. E’ un banchetto per pochi, mentre nel 2010 un pesante piano di ristrutturazione taglia oltre 300 dipendenti. Non basta ancora. Troppi debiti. E alla fine arrivano i cinesi.

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