Si apre in questi giorni a Chicago il job market in economia e finanza, l’appuntamento annuale che permette alle università di tutto il mondo di incontrare e selezionare i migliori giovani ricercatori. È un vero e proprio mercato del lavoro, in cui la concorrenza è molto intensa. La grande maggioranza delle università italiane non dispone né delle risorse finanziarie né di una reputazione scientifica adeguata per parteciparvi. Si tratta di una condizione di autarchia che favorisce abusi e nepotismi e per questo bisogna uscirne. Anche con l’aiuto della politica.

di Fausto Panunzi* (Fonte: lavoce.info)

Da giovedì 5 a domenica 8 gennaio molti ricercatori e docenti di economia e finanza si troveranno a Chicago per il meeting di Assa (Allied Social Science Associations), la conferenza annuale più importante in questi campi. Ovviamente, si dibatterà ampiamente della crisi economica. Ma la ragione principale che spinge quasi tutte le università mondiali a inviare una delegazione a Chicago è che la conferenza coincide con il job market (il mercato del lavoro) in economia e finanza.

Come funziona il job market

Come funziona questo mercato? Nelle scorse settimane gli studenti di dottorato (PhD) in procinto di concludere il programma di studio hanno inviato le loro “applications”, vale a dire il curriculum insieme ai lavori scientifici, alle università che hanno manifestato l’interesse ad assumere giovani ricercatori. Il dipartimento di Economia della Bocconi, ad esempio, ne ha ricevute più di 400 per le due posizioni disponibili. Prima di Natale, le università hanno fatto una selezione tra tutte le domande ricevute e a Chicago avranno colloqui con i candidati prescelti. Dopodiché inviteranno alcuni degli intervistati a tenere un seminario (fly-out) presso la loro sede. Al termine della serie di seminari, le università faranno la loro offerta ad alcuni dei candidati invitati. Per l’inizio di marzo tutta questa frenetica attività sarà conclusa: gli studenti sapranno dove andranno a lavorare e le università sapranno chi sono i loro nuovi assunti. È un vero e proprio mercato del lavoro, in cui la concorrenza è molto intensa. È intensa sul lato dell’offerta, cioè tra gli studenti di PhD che cercano un lavoro. Tutti sognano un’offerta dal Mit o da Harvard, ma solo due o tre tra di loro la riceveranno. E ciò sarà determinato in gran parte dalla qualità della loro ricerca e dall’efficacia nelle presentazioni ai seminari. Ma la concorrenza è intensa anche sul lato della domanda, cioè tra le università che cercano di assumere giovani ricercatori. I candidati, nel valutare le diverse offerte ricevute, usano diversi criteri. Uno, certo, è l’aspetto finanziario dell’offerta, ma non è il solo. Il criterio principale è la reputazione scientifica del dipartimento che fa l’offerta, vale a dire la qualità della ricerca dei suoi membri. È proprio grazie alla reputazione che Harvard e Mit riescono ad attrarre i migliori candidati senza doverli strapagare, anzi offrendo compensi a volte meno elevati di altre istituzioni. Nella fase negoziale si vede quanto sia difficile competere con le migliori istituzioni internazionali. La reputazione scientifica richiede anni per essere costruita e investimenti notevoli in termini di risorse umane e finanziarie. E malgrado gli sforzi non si potrà probabilmente mai arrivare a competere con Harvard, Mit, Stanford, eccetera.

I ritardi italiani

Poche istituzioni italiane sono attrezzate a competere in un ambiente così concorrenziale. La grande maggioranza non dispone né delle risorse finanziarie né di una reputazione scientifica adeguata. Ci sono da molti anni ragazzi italiani che sono tra i migliori candidati sul mercato, ma pochissimi tra loro torneranno in Italia, proprio perché avranno offerte più attraenti all’estero, specialmente negli Stati Uniti. E se è difficile attrarre gli italiani, immaginate quanto sia difficile rivolgersi agli stranieri, specie dopo questi mesi in cui la credibilità dell’Italia a livello politico ed economico è stata così intaccata.
Ma la difficoltà del compito non può essere una scusa per rimanere al di fuori del circuito internazionale. È proprio l’autarchia a livello di reclutamento e di ricerca ad avere favorito gli abusi e il nepotismo di cui si legge spesso sui giornali. E, a sua volta, è la mancanza di incentivi ad assumere i candidati migliori a far sopravvivere l’autarchia. Le università devono poter disporre delle risorse finanziarie necessarie per poter fare offerte competitive nel mercato del lavoro internazionale. Al contempo, dovranno essere valutate sulla base dei risultati ottenuti. Alcuni ostacoli posso essere rimossi dalla politica. Ad esempio, sarebbe utilissimo concedere un visto automaticouna procedura per facilitare l’ottenimento della cittadinanza ai ricercatori neo-assunti, ma anche agli studenti di dottorato, che provengono da paesi che non appartengono all’Unione Europea. Il neo-ministro per l’Università, Francesco Profumo, queste cose le conosce molto bene. Speriamo che, anche nell’orizzonte temporale ridotto del governo Monti, riesca a fare qualcosa di significativo.

*Fausto Panunzi ha conseguito il PhD presso il Massachusetts Institute of Technology. Attualmente insegna Economia Politica presso l’Università Bocconi. In precedenza ha insegnato presso l’Università di Bologna, l’Università di Pavia, Lecturer all’University College London, Research Fellow presso IDEI (Toulouse ) e IGIER. Le sue aree di interesse scientifico sono la Teoria dell’impresa, finanza d’impresa e Teoria dei contratti.

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