Cosa fare per far funzionare le soprintendenze?

In primo luogo bisogna avere ben chiaro che il sistema di tutela capillarmente ramificato sul territorio è una peculiarità italiana, così come lo è l’inclusione della tutela del patrimonio tra i principi fondamentali della Carta costituzionale. L’articolo 9 della Costituzione repubblicana ha mutato irreversibilmente il ruolo del patrimonio storico e artistico italiano, facendone un segno visibile della sovranità dei cittadini, i quali ne sono proprietari come un tempo lo erano i sovrani degli antichi stati italiani, e facendone un segno visibile dell’unità nazionale, perché quel patrimonio è una lingua che, proprio come quella fatta di parole, ha unito l’Italia assai prima del 1861. Tutelare il patrimonio vuol dire dunque attuare la Costituzione, ed è per questo che la tutela è affidata ad un sistema centrale di soprintendenze che risponde (dovrebbe rispondere) solo alla legge, alla scienza e alla coscienza.

Fino al 1974 le Soprintendenze dipendevano dal Ministero della Pubblica Istruzione, rendendo così manifesto che la funzione del patrimonio è lo sviluppo della ricerca, della cultura e dell’educazione dei cittadini. Se oggi, per molte ragioni, sarebe impensabile tornare a quell’assetto, si dovrebbe invece lavorare per fondere i Beni Culturali e l’Ambiente: in Italia il patrimonio storico e artistico è ontologicamente fuso con la natura, ed è impossibile tutelare l’uno senza tutelare l’altra. D’altra parte, se si pensa che il MiBAC ha tra i suoi compiti la tutela del paesaggio si comprenderà quanti danni faccia la concorrenza di competenze con l’Ambiente.

Detto questo, per far funzionare l’esistente, il Ministro dovrebbe perseguire alcuni obiettivi fondamentali:

1) l’assoluta indipendenza delle soprintendenze dal potere politico, centrale e locale;

2) la massima autorevolezza scientifica, culturale e morale dei soprintendenti;

3) la massima capillarità territoriale possibile del sistema di tutela;

4) un serio, fitto ricambio dei ranghi tecnici (storici dell’arte e archeologi), basato esclusivamente sul merito;

5) l’agganciamento degli stipendi dei funzionari almeno agli standards universitari.

Per i primi due punti non servono soldi, serve solo la volontà di invertire il trend che ha fatto dei soprintendenti italiani i lacché della politica. Bisognerebbe abolire i contratti a tempo delle posizioni apicali del sistema: se il soprintentendente di Firenze o di Roma aspetta di venire rinnovato dal ministro di turno, la sua autonomia è finita prima di cominciare. E bisognerebbe avere il coraggio di intervenire radicalmente su antiche sacche di distorsione: il sistema autonomo di tutela siciliano (responsabile di uno sfascio tra i più gravi), o l’anomala soprintendenza comunale archeologica di Roma, che ha aperto la strada ad enormità come quelle contenute nella legge speciale per Roma approvata dal governo Monti, giustamente segnalate nei commenti al mio ultimo post.

Se ho acceso più volte i riflettori su Roberto Cecchi (e se continuerò a farlo) non è certo per un problema personale: negli episodi cui ho alluso, e più in generale nella sua intera condotta, Cecchi ha incarnato (al più alto livello possibile) un nuovo modo di essere funzionari del Mibac, e cioè quello di essere a completa disposizione della politica. Una linea compiutasi nel modo più plateale nella sua stessa cooptazione nel ceto politico, con la nomina a sottosegretario. Ecco: credo che questa sia esattamente la direzione in cui la tutela italiana NON deve andare.

Per gli ultimi tre punti, occorre naturalmente un incremento della dotazione economica del MiBAC. Basterebbe recuperare ciò che Tremonti ha sottratto, magari avendo la capacità di spenderlo, invece che generare residui passivi. E per far questo basterebbe destinare al patrimonio una minima quota del gettito che nei prossimi anni sarà (dovrà essere) recuperato alla colossale evasione fiscale del nostro Paese.

Siamo liberi di muoverci in questa direzione, o di rimanere inerti.

Ma se scegliamo di non fare niente, dobbiamo essere consapevoli che il degrado del patrimonio non si arresterà.

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