Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano

Da Morfeo a re Giorgio. Il 2011 ha segnato la svolta per il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che Beppe Grillo paragonò irrispettosamente al Dio del sonno. Era il lontano 2008, ma quell’etichetta gli era rimasta appiccicata addosso e riaffiorava ogni volta che la firma presidenziale veniva apposta in calce alle “leggi vergogna” approvate dalla maggioranza berlusconiana, dallo Scudo fiscale al “legittimo impedimento”. Ma negli ultimi mesi di quest’anno, quando l’Italia ha rischiato di andare incontro alla “catastrofe” – parole sue – Morfeo si è trasformato in Re Giorgio. Con lo spread sui titoli di Stato che schizzava in alto verso il rischio default, mentre le misure economiche promesse all’Europa si impantanavano nel “braccio di ferro” tra Berlusconi e Bossi e nell’epidemia di “mal di pancia” nel centrodestra, il presidente ha preso in pugno la situazione spianando la strada al governo tecnico di Mario Monti.

L’anno della “catastrofe” certo non prometteva bene, la crisi era già conclamata, ma Napolitano poteva ancora permettersi di incentrare il suo intervento a reti unificate dell’ultimo giorno del 2010 sulla preoccupazione per il “malessere dei giovani”. Nel corso degli ultimi 12 mesi, il presidente della Repubblica è intervenuto sull’affollamento delle carceri, sul diritto di cittadinanza per i figli nati in Italia da genitori immigrati, sull’eccessiva esposizione mediatica di alcuni magistrati. Ha avvallato i bombardamenti italiani in Libia, si è rifiutato di emanare il decreto legislativo sul federalismo fiscale – fortemente voluto dalla Lega, ma viziato da un iter parlamentare non regolare –, ha chiesto “chiarimenti” sulla nomina a ministro dell’agricoltura diSaverio Romano, inquisito per concorso in associazione mafiosa e per corruzione, ancora con l’aggravante mafiosa. Ma è negli ultimi due mesi del 2011 che Re Giorgio ha deciso di prendere in pugno un paese politicamente allo sbando.

L’8 novembre, Silvio Berlusconi prende atto di non aver più una maggioranza solida alla Camera e annuncia che si dimetterà da presidente del consiglio dopo aver portato a termine l’iter parlamentare di approvazione della legge di stabilità, con le misure economiche più urgenti: pensioni, lavoro, liberalizzazioni…. Il pallottoliere dei tempi istituzionali dice che tra Camera e Senato ci vogliono almeno tre settimane, se non un mese.

Troppo. Per Giorgio Napolitano, 86 anni, al Quirinale dal 2006, il 9 novembre è il giorno più lungo. L’Italia tracolla sui mercati finanziari, lo spread tra titoli di Stato decennali italiani e tedeschi, in crescita preoccupante dall’estate, tocca livelli mai visti. Napolitano parla di “ore difficili e delicate”, di un paese in ”condizione critica e allarmante”, che deve subito “recuperare fiducia”. Alle 13 lo spread è pari a 574 punti, il massimo storico da quando esiste l’euro. Significa che lo Stato deve pagare sul debito pubblico a lungo termine un interesse del 7 e mezzo per cento.

La Banca centrale europea si affanna ad acquistare titoli italiani, ma la situazione potrebbe non essere sostenibile. “Bisogna agire a ore, bisogna assolutamente ripristinare la credibilità del Paese, non ci meritiamo di finire come la Grecia”, dichiara Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria. Napolitano fa due cose fondamentali. Impone che i tempi di approvazione della legge di stabiltà si accorcino drasticamente: non più di una settimana. E nel pomeriggio nomina senatore a vita Mario Monti, l’economista dell’Università Bocconi che da qualche tempo i rumor di palazzo indicano come possibile capo di un governo tecnico, o meglio di salvezza nazionale.

Si intuiscono pressioni dai partner europei, Germania in testa, che temono il crollo di un’economia fondamentale dell’Unione e l’inevitabile l’effetto domino. Secondo il Wall Street Journal, il cancelliere Angela Merkel aveva già chiesto espressamente al presidente della Repubblica un cambio di governo, in una telefonata del 20 ottobre, data l’incapacità di Berlusconi di trasformare in provvedimenti concreti le richieste provenienti dalla Bce e dai paesi partner. Il Quirinale smentisce.

Il piano va in porto. Il 12 novembre lo stesso Napolitano promulga la Legge di stabilità, approvata senza intoppi da Camera e Senato grazie alla non belligeranza dell’opposizione. Berlusconi va al Quirinale a dimettersi, passando le forche caudine di una folla festante che stappa spumante e urla insulti. La sera di domenica 13, dopo rapide consultazioni con i partiti, il presidente incarica Monti, in modo che lunedì la riapertura dei mercati veda al timone dell’Italia una figura stimata in Europa. E da questo punto di vista, l’ex rettore dell’Università Bocconi ed ex commissario dell’Ue alla concorrenza è la persona più indicata. Certamente più del Cavaliere, la cui credibilità è ai minimi storici per gli scandali sessuali di cui è protagonista e i processi per corruzione e altri reati che deve fronteggiare. Il 16 novembre il governo dei “professori” è riunito al Quirinale per il giuramento. Dalle dimissioni di Berlusconi sono passati soltanto quattro giorni. In sintesi: l’alto dirigente del Pci della Guerra fredda ha messo alla porta il più anticomunista dei leader politici italiani. E ha aperto la strada all’economista che piace ai mercati finanziari internazionali.

Il passaggio non è indolore. Il premier uscente e quello entrante si incontrano a pranzo il 12, per un ideale passaggio di consegne in cui, secondo le indiscrezioni, Berlusconi detta alcune condizioni in cambio del sostegno parlamentare a un governo tecnico indigesto alla maggior parte dei pidiellini. Tra queste, un nome “amico” al ministero della Giustizia e nessun intervento legislativo sull’emittenza televisiva. Berlusconi adotterà poi una strategia equilibristica nei confronti dell’esecutivo dei “professori”: sostegno in Parlamento, anche se un po’ sfrangiato; mani libere nei proclami per la campagna elettorale immediatamente avviata dal Pdl; cancellazione mediatica di ogni responsabilità del governo Berlusconi-Bossi sulla gravissima crisi che Monti è chiamato a risolvere.

Giorgio Napolitano non è Francesco Cossiga, un presidente da cui ci si poteva aspettare qualunque “esternazione”. Eppure i toni che usa fanno capire che in quei giorni di novembre si è giocato – e ci siamo giocati – il tutto per tutto. ”Dobbiamo dirci con tutta franchezza – ha affermato in un intervento a Mantova il 6 dicembre – che siamo arrivati giusto in tempo per evitare sviluppi in senso catastrofico della nostra situazione”.

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