La tragica vicenda di Torino in cui la bugia di un’adolescente ha scatenato un vero e proprio pogrom che ha distrutto un campo rom è stata archiviata con troppa fretta. E’ evidente che la città, la sua amministrazione, la sua grande intellettualità, persino le molte associazioni che operano nel capoluogo hanno difficoltà a fare i conti con quanto è successo, spia di un malessere profondo che va oltre la soglia del pregiudizio contro una comunità da sempre guardata con diffidenza e sospetto.

Quello che è successo ai rom è terribile perché interrompe un percorso di integrazione che pure aveva dato alcuni risultati: molti ragazzi del campo erano infatti scolarizzati e questo semplice dato costituisce in sé un cambiamento positivo, capace di produrne molti altri. Ma è terribile anche perché dimostra che nelle nostre città, anche in quelle con una grande tradizione multiculturale e con un’ampia rete di servizi come Torino, esistono delle gallerie sotterranee di intolleranza che armano le menti e talvolta le mani di persone a loro volta vittime di altre emarginazioni e di altre esclusioni sociali.

La distanza simbolica e psicologica tra i condomini delle Vallette e i palazzi della cultura torinese è enorme, quasi due città divise e lontane. E la crisi innesca una guerra tra poveri. Una guerra che talvolta ha qualche fondamento perché, diminuendo le risorse per gli interventi di sostegno al disagio, aumenta la competizione per guadagnare un servizio o un contributo: aiutare i rom o i disabili? Investire sui figli degli immigrati o suoi ragazzi emarginati dei quartieri a rischio? Domande assurde eppure tristemente attuali in un paese che non sa trovare le risorse per dare risposte complessive a chi ha bisogno. Ma altre volte la guerra e la competizione tra poveri è puramente mentale, ed è frutto di messaggi sbagliati e purtroppo tollerati in un clima politico disordinato e confuso come quello degli ultimi anni.

Ma questo è solo un aspetto della tragedia di Torino. Ce n’è un altro, non meno grave, legato invece alla ragazza che ha inventato una grande bugia per nascondere ai suoi genitori che aveva fatto l’amore. Dalle cronache apprendiamo che la famiglia sottoponeva la ragazza a periodiche visite ginecologiche per verificarne la persistente verginità. Terribile. Come vive una giovane ragazza in una famiglia in cui il dialogo e il confronto vengono sostituiti dalla pratica routinaria di un controllo dell’imene? Che società è quella in cui una famiglia costruisce la sua rispettabilità violando ciò che in una persona – e l’adolescente è una persona – ha di più intimo e privato? Quale immagine e quale pratica della sessualità si stanno affermando in famiglie impaurite dalla prossimità con un vicino sconosciuto guardato con sospetto e terrore?

Domande che non pensavamo attuali nell’Italia del 2011 e che invece tutti – istituzioni locali, associazioni, Chiesa cattolica, noi stessi – dobbiamo porci per capire che cosa si muove in quelle gallerie sotterranee dell’intolleranza, certo, ma anche del perbenismo e della competizione sociale.

Prima di magnificare il ruolo della famiglia italiana soluzione a tutti i problemi, interroghiamoci su che cosa sia effettivamente diventata e di quanti scheletri ci teniamo negli armadi di casa.

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