Cinema

Bellocchio e Bertolucci ancora sul set. Quando la qualità fa rima con incassi

Il regista parmigiano ha appena finito di girare Io e te, tratto da Ammaniti. Il collega piacentino inizia le riprese de La bella addormentata con la Rohrwacher sul caso Englaro. Quarant'anni di successo internazionale senza interruzioni

di Davide Turrini

L’ultimo atto è stato il passaggio di Leone d’Oro alla carriera durante l’ultimo Festival di Venezia. Bernardo Bertolucci che premia Marco Bellocchio sotto lo sguardo attento di Marco Muller. Rivali forse mai, amici per la pelle poco, ma grande rispetto reciproco. Sono i due grandi “vecchi” del cinema italiano, ancora viventi, ancora in macchinosa e stupefacente attività.

Bertolucci che ha appena finito le riprese del film Io e te, tratto dal libro di Niccolò Ammaniti e Bellocchio pronto al primo ciak per La bella addormentata, ispirato alla vicenda di Eluana Englaro.

Mai un lavoro insieme, qualche traiettoria estetica sfiorata, Bertolucci e Bellocchio, Bellocchio e Bertolucci, sono l’ultimo enorme frammento della prima generazione del dopoguerra cinematografico italiano che ha sconvolto le regole del gioco.

Bertolucci, parmigiano, classe 1940, nasce nella tradizione familiare intellettuale di papà (il poeta Attilio), dell’arte come naturale protuberanza del sapere. Subito sul set come assistente di Pasolini per Accattone (1961) a scontrarsi con le grandi produzioni “romane”, Bertolucci pensa e vede subito il cinema come “bigger than life”.

Bellocchio, classe ’39, da Bobbio (Piacenza), è più ruspante, folleggiante, butta la mamma dal dirupo nell’esordio al lungometraggio de I pugni in tasca (1965) e reinventa punteggiatura e ritmo della scena cinematografica italiana come fece Jean Luc Godard con Fino all’ultimo respiro. In più la ciliegina sulla torta: l’arma della sovversione culturale e sociale.

Per entrambi il cinema era, ed è, politico. L’arte intesa come impegno (“la forma è contenuto”), ideale che funzionava molto negli anni sessanta/settanta e che oggi, nell’epoca del massimo disimpegno dove il cinema non è più ribaltamento dei canoni culturali e sociali del reale, sembra roba per arzilli e biforcuti ottuagenari.

Due percorsi diversi, comunque. Bertolucci esordisce con La commare secca (1964) ma sente più suo il secondo film (Prima della rivoluzione, 1964), e come per l’opera prima di Bellocchio punta sulla decostruzione del linguaggio più che sulla forza del racconto. Prosegue poi, anzi s’incarta, nel ’68 con Partner, e invece di finire dimenticato, sfoggia megaproduzioni internazionali: Il Conformista, matura presa di posizione estetica, intima e storica (omosessualità e fascismo si mescolano con abile maestria); lo scandaloso Marlon Brando con burro in Ultimo tango a Parigi (1972) e settant’anni di storia italiana con Novecento condiviso a tre tra Depardieu, De Niro e Stefania Sandrelli. Da qui Hollywood lo incastra e se lo tiene stretto. Bertolucci come esotismo all’italiana. Seguono dibattiti e confronti: meglio l’epoca italiana o il periodo americano (il Tè nel deserto, Il piccolo Buddha)? In mezzo l’incoronazione dei nove oscar per L’ultimo imperatore (1989).

Bellocchio invece compie un percorso più introverso, si confronta sempre con i totem e i tabù della psicanalisi (Nel nome del padre, ‘72), flirta con l’attualità italiana (Sbatti il mostro in prima pagina, ’72), poi l’epoca (nefasta o benefica solo lui lo sa) della terapia con lo psicanalista Fagioli, guru e super Io della sinistra nostrana che porta a Il diavolo in corpo (terrorismo ed eros come nessuno mai) e una strana maturazione artistica e chiarezza espressiva da adulto. Capolavori come La balia, L’ora di religione, Buongiorno, notte, Il regista di matrimoni e Vincere! si accavallano sul finire del secolo e all’inizio del nuovo millennio con riconoscimenti, come del resto il collega parmigiano prese più in giovane età, da Francia e Stati Uniti.

I due signori, ancora liberi intellettualmente dopo quarant’anni di mode e correnti, di ridicole televisioni e pacchiani salotti tv, marchiano il territorio e si fanno prepotentemente sentire. Dopo appelli e contro appelli per la morte del cinema in Italia (“qualcuno potrebbe mai più rifare un Salò di Pasolini, oggi?”) Bertolucci prende Ammaniti, di cui si è “innamorato”, e porta a termine con attori esordienti Io e te: storia di Lorenzo, adolescente solitario e problematico che sceglie di passare la settimana bianca nella cantina di casa con l’arrivo improvviso di una pedante sorellastra, altrettanto complicata e fragile, a rovinargli i piani di fuga.

Bellocchio, invece, s’incunea nuovamente in una fenditura del nostro recente passato nazionale. Lì dove le certezze scricchiolano, dove la finzione cinematografica può ancora stupire e scuotere, senza morbosità e violenza di sguardo. La bella addormentata parte dal dramma di Eluana Englaro e dall’ultimo atto della sua vita nella clinica friulana La quiete. Le riprese iniziano tra poche settimane con Alba Rohrwacher attrice principale.

Avranno 70 anni, ma al cinema corrono ancora in parecchi a vederli. Il successo commerciale coniugato alla qualità. Quando la lezione storica si coniuga al fatto oggettivo. Meglio non dimenticarli mai.

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