Sventagliate di proiettili contro le auto, minacce e intimidazioni con la pistola in pugno, o esibita alla cintura dei pantaloni. Così un gruppo di persone, radicate in Toscana fin dagli anni Ottanta e legate secondo gli inquirenti alla camorra, acquisiva aziende da imprenditori in difficoltà e poi le gestiva, con una buona dose di “nero” e di evasione fiscale. Sette ordinanze di custodia cautelare, di cui 4 in carcere e 3 ai domiciliari, sono state eseguite della Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile fiorentina, e 31 persone sono state denunciate, nell’ambito di un’inchiesta coordinata dalla direzione distrettuale antimafia. Sono stati sequestrati beni per 9 milioni di euro e accettate evasioni fiscali per 20 milioni dal 2002 a oggi. Estorsioni, tentate corruzioni, riciclaggio e reati societari messi in atto con l’uso della forza e dell’intimidazione sono solo alcuni dei reati contestati dal gip Antonio Angelo Pezzuti, con l’aggravante del metodo mafioso, su richiesta del pm Pietro Suchan.

Secondo le indagini, il gruppo faceva capo ai clan camorristici Ligato, Russo e Bardellino. Agli imprenditori in difficoltà offriva sostegno economico, ma poi assorbiva completamente la gestione delle aziende, piegando con minacce e violenze le resistenze dei titolari. Da quel momento, la contabilità delle società veniva gestita quasi completamente in nero, con la supervisione di un noto professionista del Sud Pontino (all’operazione hanno collaborato anche i finanzieri del Gruppo di Formia). L’evasione fiscale era favorita dalla costituzione di società “cartiere” che emettevano fatture false a beneficio di società del settore tessile, le quali, a loro volta, le contabilizzavano generando così falsi crediti di imposta impiegati poi per il pagamento dei tributi in compensazione. Queste società erano intestate a prestanome, che per questo compito percepivano dagli 800 ai 1.500 euro al mese, e avevano una durata media di due anni: quindi venivano liquidate e sostituite con altre dello stesso tipo. Gli indagati mostravano un alto tenore di vita e un’ampia disponibilità di denaro, spesso prelavato da conti all’estero.

A dare il via alle indagini, nell’ottobre del 2009, è stata la testimonianza di un imprenditore che ha denunciato alla polizia un colpo d’arma da fuoco esploso sulla portiera della sua auto da personaggi riconducibili alle persone inquisite. L’uomo, titolare di una ditta di giardinaggio di Castelfiorentino, si era trovato improvvisamente in crisi finanziaria e aveva accettato l’aiuto di un imprenditore campano, il principale indagato. Con il passare del tempo, però, si era ritrovato messo al margine dal nuovo socio, con controrno di minacce e aggressioni in puro stile mafioso. La società ne è uscita completamete spolpata. Una sorte toccata a diverse aziende tra le province di Firenze, Pisa e Prato. Una di queste era stata assorbita dal clan per gestire le corse automobilistiche di rally al quale il capoclan e il figlio partecipavano come semiprofessionisti.

I profitti venivano poi reinvestiti in autovetture di lusso e proprieta’ immobiliari in Toscana, Sardegna e Campania.

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