Tra i tantissimi effetti collaterali della crisi (non tutti negativi, per la verità), stanno aumentando aggressività e intolleranza.

Basta leggere i giornali, basta girare per le nostre città, basta scorrere i post pubblicati sui Social Network.

Essendo io un “animale 2.0“, su Facebook ho tantissimi “amici“. Poco hanno a che fare con le persone con cui esco a mangiare una pizza, parlo di libri o mi confido, ma molto c’entrano con il desiderio di conoscere, anche e soprattutto attraverso il racconto condiviso di una fetta un po’ più ampia di persone.

Ecco, notavo che tra alcuni “amici” di Facebook sta girando una catena di Sant’Antonio di quelle che ogni tanto vedi rilanciate da varie persone. Questa fa più o meno così (vado a memoria): “Da oggi quando uno zingaro farà l’elemosina al semaforo dicendoci che ha fame, potremo rispondere anche io” con la foto di un ragazzo su un’auto che – tutto stretto nel suo giubbotto di pelle – brandisce un pezzo di cartone con sopra un messaggio di richiesta di soldi.

Voi direte: ironia. Posso anche ammettere che la vera intolleranza, quella che fa scoppiare le rivolte sociali non sta qui, però a me questo post, apparentemente innocuo, ha davvero messo i brividi. E’ come se ciò che non era lecito ieri, lo possa diventare oggi e domani. Prima ci percepivamo benestanti (e poi c’erano i poveri disgraziati) anche con uno stipendio di 1000 €, oggi ci percepiamo dei poveracci con il Suv che possono permettersi – a testa alta – di rivendicare il sacrosanto diritto che nessuno ci rompa i co***ni al semaforo, senza sentirci nemmeno un po’ in colpa.

Qualche settimana fa ero alla Coop ed era il giorno della Colletta alimentare. Mentre entravo, di fianco a me c’era una ragazza che avrà avuto 25 anni al massimo. A entrambe i volontari della Colletta hanno lasciato le buste gialle, nel caso avessimo voluto aderire all’iniziativa. Lei li ha guardati con insofferenza e con una voce bassa e un po’ rabbiosa ha sussurrato “Non ho soldi nemmeno per me, figurati se compro da mangiare per qualcun altro!” mentre si allontanava a grandi falcate, perdendosi tra i bancali.

Ora.

E’ probabile che quella ragazza avesse davvero dei problemi economici seri e non mi interessa fare i conti in tasca a lei, certamente mi ha colpito il tono veemente con cui si è rivolta ai giovani volontari (molti erano suoi coetanei) che erano lì da ore e che non chiedevano o obbligavano a nessun acquisto.

Mi ha colpita perché ho letto nel suo tono e nei suoi modi una certa soddisfazione. Era un po’ come dire: “Lo sappiamo tutti che c’è la crisi, non si parla di altro, posso lecitamente essere incazzata se guadagno poco e vorrei una vita professionale migliore!“.

Mi ha colpito perché se le ragioni sono giuste, temo che possano fomentare quel senso di appartenenza a un determinato gruppo sociale che potrebbe diventare il terreno fertile su cui si innestano sentimenti di intolleranza etnica, nei confronti di un numero sempre maggiore di “nemici” che insediano quel poco che ci resta.

Mi ha colpito alla Coop, mi ha colpito su Facebook. Come se da quando il concetto di crisi è stato sdoganato ed è entrato nelle nostre case insieme all’ICI, sia meno riprovevole essere un po’ razzisti, un po’ aggressivi e un po’ incazzati con il nostro vicino.

Mi ha colpito perché non sono così convinta che queste forme di rivendicazione del proprio status, in opposizione a quello di altri, siano di chi sta pagando davvero questa crisi e non piuttosto un po’ delle scuse per dare la stura a un senso di frustrazione diffuso per aver oscillato tra la Milano da Bere e l’Argentina dei Bot senza sapere bene chi siamo e come vogliamo essere.

L’aggressività si declina in molti modi.

Qualche giorno fa ero a Milano. In una galleria della metropolitana mi è capitato di assistere alla lite tra una guardia giurata e un venditore ambulante. La guardia prendeva a calci le cose del venditore abusivo e gli diceva “Vattene, questa è casa mia. Qui comando io e tu te ne devi andare!“. Non ha fatto nemmeno per un attimo appello alla Legge, al fatto che il motivo per cui quel uomo non poteva stare lì era l’illegalità della vendita abusiva, ma ha voluto marcare territorialmente le sue azioni, estromettendolo da ciò che riteneva “suo“.

Non è stata una scena edificante. Volavano urla.

Probabilmente succedeva anche prima, probabilmente succedeva uguale dieci, venti, trenta anni fa. I nomadi, gli zingari, gli stranieri, gli extracomunitari, i “vù cumprà” sono sempre stati il capro espiatorio, nella necessità di espellere l’uomo nero, eppure ho la sensazione che oggi sia molto più lecito di ieri pensare di dover proteggere il proprio orticello, la propria identità marchiata dalla crisi.

Lo cantava Ivano Fossati 30 anni fa: “La crisi ci aspetta giù al portone“, ce lo sentiamo addosso, tutti, oggi.

La CRISI è diventata la nostra migliore compagna di viaggio, il nostro lasciapassare per il malessere. Di qualunque tipo sia. A qualunque esito o eccesso porti.

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