E così è successo un’altra volta, la bestia umana ha trovato il suo capro espiatorio. Il solito: i Rom.

La storia è nota. Una ragazzina sedicenne fa l’amore per la prima volta con il suo ragazzo e, segnata nel corpo dai gesti di un amore che credeva forse più romantico, temendo le reazioni di una famiglia a dir poco retrogada (pare che la giovane venisse periodicamente sottoposta a visite mediche che certificassero la sua purezza) pensa bene di inventarsi uno stupro. Da parte dei soliti, appunto. I Rom.

E alla gente del suo quartiere, periferia torinese, non sembra vero di avere finalmente l’occasione per dare una lezione a quelli là: con una feroce azione punitiva, giovani ultrà e vecchi razzisti incendiano il campo Rom confinante, bruciando le baracche e le povere cose che contengono; mettendo in conto, sicuramente, anche quei morti che, per fortuna, non ci sono stati. Li volevano vedere bruciare, gli zingari. Immemori di riprodurre così lo scempio che altri, prima di loro, avevano fatto di altri nomadi: mezzo milione di Rom e Sinti gassati e bruciati ad Auschwitz per mano nazista.

Anche se so che questa non sarà l’ultima volta che una violenza cieca si abbatte su un popolo o su un gruppo etnico solo perché è “quel” popolo, che il pregiudizio ha la meglio sulla ragionevolezza, la falsità sulla verità, non avrei più voluto scrivere dei Rom sull’onda dell’ennesimo raid squadristico. Altre erano le storie che avrei voluto raccontare, per una volta, su di loro.
Pochi giorni fa ho assistito, a Milano, a un magnifico spettacolo di Moni Ovadia dedicato agli zingari. Il cantastorie ebreo ha con grande onestà ceduto il primato di perseguitato storico del suo popolo ai Rom. Gli ebrei, ha detto, sono infine entrati nel salotto buono, oggi denigrarli è politicamente scorretto. Non così è per i Rom “popoli di cui molto si è parlato, ma con cui poco si è parlato”.

Con lui sul palco, magnifici musicisti tzigani (fra i quali un giovanissimo violinista autodidatta, iscritto di diritto agli ultimi anni di corso al Conservatorio per la sua straordinaria abilità) punteggivano il racconto di persecuzioni e rivelazioni. Pochi sanno, per esempio, che sono zingari i più grandi suonatori e costruttori di cembalo, un raffinato pianoforte senza tasti, a sole corde, o che Brahms e Listz s’ispiravano dichiaratamente a musiche tzigane nella composizione delle proprie; o, ancora, che uno dei più grandi chitarristi jazz, Django Reinhard, era uno zingaro, per sovrappiù handicappato, visto che gli mancavano tre dita.

Ovadia leggeva invettive contro sudici individui che vivono in sordide baracche campando di elemosina, furti, rapimenti, per poi rivelare che quelle parole si riferivano agli italiani emigrati di cent’anni fa, in America. O rievocava gli esodi degli ebrei che negli anni Venti migravano da Oriente fuggendo dai pogrom, ma sembrava che descrivesse le migrazioni dei Rom, solo pochi anni fa, dai paesi balcanici, la loro fuga da altre, nuove persecuzioni. “La vile Europa non ha ancora imparato nulla dalla sua storia più recente e crudele” diceva Ovadia. Figuriamoci se l’ha capito l’italiano medio, quello che, come ha scritto in un illuminante articolo su Repubblica Michela Murgia, è cresciuto “imparando a temere il diverso e lo straniero a prescindere dal fatto che sia colpevole di qualcosa”. Confortato da una classe politica fatta di sindaci, assessori, parlamentari, perfino ministri che hanno legittimato il diritto, se non il vanto, di dichiararsi razzisti.

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