Adesso, è inutile negarlo, i sospetti iniziano a farsi strada. Perché, di fronte un vertice europeo che non ha saputo realizzare un’intesa piena una riforma credibile, la sfiducia sarà pure comprensibile. Ma certe uscite e certe eccezionali manifestazioni di tempismo contribuiscono se non altro ad alimentare una tensione crescente lungo una frattura che al vertice stesso preesisteva eccome. Perché in definitiva, ad oggi, non è il caso di parlare di complotti. Ma certo appare utile analizzare il clima sempre più aspro che caratterizza i rapporti tra la traballante Europa continentale e tutto ciò che si trova al di là della Manica. Dalla City londinese alla sempre verde Wall Street.

A gettare benzina sul fuoco, da ultima, è stata l’agenzia Moody’s che, in giornata, ha annunciato la sua decisione di mettere sotto osservazione l’eurozona per un possibile downgrade dei singoli rating sovrani. Una mossa che replica in pieno quanto già comunicato la settimana precedente dalla collega Standard & Poor’s, responsabile di una scelta a dir poco discutibile. A finire sotto la lente, infatti, non sono soltanto i punti nevralgici della crisi europea ma anche, e questo è obiettivamente incomprensibile, le nazioni più solide. Insomma, pur partendo da situazioni diametralmente opposte, a rischiare un downgrade sono tanto il Portogallo, Paese già tecnicamente fallito e salvato dall’intervento esterno di Ue e Fmi, quanto la Finlandia, una nazione talmente disciplinata da vantare il pieno rispetto del patto di stabilità (rapporto debito/Pil sotto quota 60%, deficit inferiore al 3%).

Alla decisione di Moody’s, manco a dirlo, i mercati hanno reagito male. E a farne le spese sono stati ovviamente i Paesi meno solidi. Milano ha chiuso a -3,79% (peggior risultato tra le piazze europee) con lo spread sopra quota 460 nonostante l’ottimo esito dell’asta Bot a costo zero (le banche hanno rinunciato alle commissioni) che ha visto una domanda quasi doppia rispetto all’offerta (13,4 miliardi contro i 7 collocati) dei titoli annuali e un rendimento in discesa, sebbene di pochissimo, rispetto alla volta precedente (5,95% contro il 6,087%). Dopo l’intenso rally delle ultime due settimane, che aveva permesso a Piazza Affari di tornare a sfiorare quota 16 mila punti (dopo i minimi di inizio novembre sotto i 14 mila) e allo spread di ridursi drasticamente, il rischio è che adesso l’Italia torni a subire gli effetti del clima ribassista che qualcuno, con particolare insistenza, ha iniziato a rilanciare.

Il rischio sui mercati resta evidente, ha sostenuto sabato il Financial Times, prefigurando il rischio di un nuovo attacco all’eurozona in queste settimane che si concentrerebbe su un Paese periferico (l’Italia? La Spagna) nel caso in cui “un’agenzia di rating offrirà (al mercato – ndr) una scusa per farlo”. E qui si torna alla questione iniziale, ovvero al rancore che starebbe provando il Continente nei confronti di una business community (del Regno Unito e degli Usa soprattutto) accusata di fare un po’ troppo il tifo per il disastro. Esattamente un anno fa, con lo spread Btp/Bund a quota 200 punti base, roba che oggi ci farebbe esultare di gioia, il FT preannunciò in modo assai poco velato il possibile arrivo della tempesta sull’Italia, allora giudicata ancora estranea al club dei Pigs. Difficile negare che gli elementi di sfiducia verso la Penisola – governo poco credibile, debito pubblico abnorme, crescita ridotta – fossero già evidenti, ma è altrettanto arduo ignorare quanto la speculazione abbia successivamente giocato un ruolo decisivo nell’affondare le obbligazioni italiani e le piazze europee.

In attesa di capire se e quanto abbiano scelto di simpatizzare per il collasso dell’euro, alcuni giornali britannici sembrano oggi già schierati a difesa delle scelte dell’esecutivo di Londra, unico, tra i Paesi membri, a rifiutare gli accordi in sede europea. “Francia e Germania si sono rifiutate di offrire a David Cameron le garanzie richieste sulla mancata imposizione di una regolamentazione e di nuove tasse che avrebbero danneggiato il settore finanziario britannico” ha ricordato domenica il Telegraph. Come a dire che il premier “non aveva scelta” visto che “i servizi finanziari rappresentano un elemento vitale per l’economia del Regno Unito assai più che per quella di ogni altro Paese europeo”. Il peso della City londinese resta obiettivamente enorme e fortemente condizionante, per questo la sua convinta difesa da parte del governo britannico appare comprensibile. Ma dal punto di vista del Continente, la protezione del comparto senza aggiunta di regolamentazioni ad hoc resta di fatto una scelta illegittima. Specialmente di fronte al diffondersi di voci sulla fragilità del Patto Ue che, oltre che a sostenere in qualche modo la decisione di Cameron, servono soprattutto ad alimentare la voglia di speculazione del mercato. Cosa che, inevitabilmente, resta per l’Europa semplicemente inaccettabile.

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