Se ci fosse bisogno di prove per dire (ma sarebbe meglio gridare ai quattro venti, fino alle orecchie dei ministri competenti) che le donne italiane vivono quotidianamente la discriminazione e la condizione di peggior vita, basterebbe un’occhiata a un paio di comunicati Istat di qualche giorno fa.

Le notizie sono due. La prima, del 7 dicembre, riguarda il tenore di vita dopo il divorzio: “La quota di separate, divorziate o riconiugate in famiglie a rischio di povertà è più alta (24%) rispetto a quella degli uomini nella stessa condizione (15,3%)”. La seconda, del 6 dicembre, è un’inchiesta sul tempo libero, condotta su circa 41.000 persone: “Gli uomini dispongono di 4h 00’ di tempo libero e svolgono lavoro familiare per 1h 14’, contro le 3h 13’ di tempo libero e le 3h 39’ di lavoro familiare delle donne”.

Questa seconda notizia comprende alcune sottonotizie, ugualmente interessanti: le studentesse dedicano 1h 11’ del loro tempo al lavoro familiare, contro i 24’ degli studenti; e ancora: “Nel corso della giornata per le lavoratrici il tempo per il lavoro familiare cresce nel pomeriggio fino a dopo cena; solo dopo le 21 le donne che svolgono attività di tempo libero superano quelle impegnate nel lavoro familiare”.

Ecco un altro buon motivo per manifestare, domenica pomeriggio, a Piazza del Popolo, a Roma, con Se Non Ora Quando: non solo in Italia si preferisce tenere le donne a casa piuttosto che incentivare il lavoro femminile e aumentare il Pil, ma non si riconosce loro il lavoro di cura, o familiare, completamente invisibile e non pagato.

Spiega Tindara Addabbo, economista all’Università di Modena e Reggio Emilia: “Il modello di Welfare State che caratterizza il nostro paese è un Welfare State familista che scarica sulla famiglia (e al suo interno sulla donna) il compito di prendersi cura degli altri. Quali sono i sostegni all’occupazione femminile in quelle regioni del Sud in cui l’incidenza dei bambini che frequentano i nidi sul totale dei bambini con meno di 2 anni si aggira attorno all’1%? Quali le scelte in contesti (non solo al Sud) in cui è ridotta la presenza di scuole a tempo pieno e scarsa la presenza di aiuti nell’assistenza agli anziani non autosufficienti?”.

Da tempo, in molte ci si è chiesto se sia possibile “valorizzare”, dare un valore, al lavoro non pagato delle donne. “Se si intende valutarlo, renderlo visibile – dice Tindara – i criteri adottabili sono diversi. Intanto, grazie alle indagini sui bilanci di tempo, occorre rendere visibile il diverso carico lavorativo di donne e uomini. E su questo le indagini Istat ci aiutano. Sarebbe tuttavia auspicabile che il monitoraggio sulla distribuzione dei tempi effettivi e sulla distribuzione desiderata sia effettuato (anche soltanto con informazioni sintetiche) utilizzando anche indagini che rilevano i redditi e la ricchezza degli individui”. Emergerebbe in questo modo che il lavoro femminile non pagato aumenta con la diminuzione del reddito, o l’appesantirsi dello squilibrio nel tempo libero nelle regioni del sud.

“A quel punto si può procedere a una valutazione dei tempi utilizzando due criteri: il costo opportunità o il costo dell’alternativa di mercato. Con il primo criterio, si valuta il lavoro di cura di una donna in base al suo salario esterno. Tuttavia, se svolgo una professione molto remunerata, rischio di sopravvalutare il lavoro di cura. Il secondo criterio prevede di equiparare il lavoro familiare al costo di un salariato esterno: la colf, la badante, etc. Tuttavia, nel lavoro di cura ci sono i pranzi e le cene (cuoco), i rammendi (ricamatrice), i compiti dei figli (educatrice). In alcune cose sono molto brava, altre meno, però ci sono anche i valori affettivi di tutto ciò. Si richiedono molte variabili, a volte di difficile quantificazione. “Con questi criteri, pur emergendo nel calcolo del reddito familiare complessivo, il lavoro femminile rimane comunque sottovalutato”. Per questo, “sarebbe preferibile incentivare una maggiore condivisione del lavoro familiare ed evitare di incentivare l’uscita delle donne dal lavoro pagato”.

Traduciamo, un po’ sinteticamente: incentivi anche alla paternità e servizi, servizi, servizi.

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