Un “bollino blu” per i blog, per Facebook, per Twitter. Perché in rete circola tanta informazione, ma spesso è inquinata da bufale, distorsioni ideologiche, inesattezze nei dati, mancata citazione delle fonti, circoli viziosi di notizie non verficate che di link in link si gonfiano nei risultati di Google, fino ad assomigliare pericolosamente a verità rivelate. Da qui l’idea di un codice di condotta basato su accuratezza dell’informazione, imparzialità nella lettura dei fatti, indipendenza da interessi nascosti, legalità. L’idea è di Timu (“squadra” in lingua Swahili), la piattaforma di informazione aperta che fa capo alla fondazione Ahref, lanciata dal provincia di Trento attraverso la Fondazione Bruno Kessler, impegnata nella ricerca scientifica e tecnologica.

“Le informazioni non accurate circolano dappertutto, non solo su internet, e nessuno può obbligare nessuno a seguire determinati principi”, chiarisce Luca De Biase, presidente della Fondazione Ahref e già fondatore dell’inserto Nova del Sole 24 Ore. “Noi proponiamo un modo di fare informazione, chi vuole può accettarlo e dichiararlo nel suo spazio web. E’ un valore in più, che noi speriamo si propaghi con un effetto a valanga”.

Per fregiarsi del “bollino blu”, il blogger deve sottoscrivere una dichiarazione di responsabilità su quanto pubblica. Prima regola, accuratezza in tutto quello che riguarda dati, persone, fatti, luoghi, e nella citazione delle fonti. Seconda regola, l’indipendenza. “Scrivere delle truffe assicurative della compagnia X lavorando per la società assicurativa concorrente Y senza dirlo è molto grave”, si legge su Timu, e il lettore deve essere a conoscenza di eventuali conflitti d’interesse di chi scrive. E l’autore non può ricevere soldi dai soggetti che cita. Ancora, l’imparzialità, vale a dire l’impegno ad affrontare i temi da ogni angolazione, senza nascondere i fatti che “non collimano con il nostro credo politico”, perché “la realtà è spesso fatta più di grigi che di bianchi e neri”. Infine, la legalità: rispetto della privacy e dei diritti dei minori, tutela delle fonti anonime “necessarie per fare informazione”.

Sono, in sintesi, le semplici regole d’oro del giornalismo – riprese dai manuali interni di Reuters, Bloomberg, Dow Jones, Nbc e Newsweek – anche se troppo spesso sono i professonisti dell’informazione i primi a disattenderle. E se un blogger le sottoscrive e poi sgarra? “Non abbiamo nessuna intenzione di controllare quello che viene pubblicato”, spiega De Biase, “sarebbe un approccio sbagliato rispetto ai principi della Rete. Chi aderisce ai principi e poi in malafede non li applica può essere sanzionato solo dalla Rete stessa. Dove la reputazione di un blogger può essere valutata con diversi sistemi”.

Il “bollino blu” è solo una parte del lavoro di Fondazione Ahref e di Timu su informazione e web. Un lavoro che supera la rivalità tra il “citizen journalism” e il giornalismo professionale, ormai “vecchia”. “Non voglio la fine della carta stampata e credo nella collaborazione tra cittadini e professionisti per produrre contenuti nuovi sulla Rete, con punti di vista più ampi di quelli che si hanno soltanto nelle redazioni”. Il riferimento è a modelli – soprattutto made in Usa – come Pro Publica (che ha vinto due premi Pulitzer negli ultimi due anni, uno per il giornalismo investigativo) o Spot Us, dove il lavoro dei giornalisti si intreccia con il contributo dei navigatori nelle diverse fasi della costruzione di un’inchiesta, dalla valutazione di un argomento al reperimento delle informazioni sul campo.

Il web apre anche la strada al “data journalism”, il giornalismo basato su dati e statistiche messi a disposizione di tutti grazie alla tecnologia: per l’Italia – dove spesso la trasparenza delle pubbliche amministrazioni è un optional – è una frontiera ancora tutta da esplorare (qui un semplice esempio sul monitoraggio delle spese della Camera dei Deputati, curato dai Radicali).

Non è un caso che molti di questi nuovi media non siano né pubblici né privati, ma facciano capo a fondazioni no profit. Il giornalismo d’inchiesta e di approfondimento tende a essere spiazzato dal mercato, perché costa tanto e rende poco in termini di “audience”, o almeno così pensano molti manager editoriali. Ma allo stesso tempo è fondamentale per comprendere la realtà e le questioni più importanti (quante volte negli ultimi anni abbiamo letto in prima pagina del problema del debito pubblico italiano, che oggi ci presenta un conto dolorosissimo?). Dunque il giornalismo di qualità, che richiede tempo e soldi, “diventa un bene pubblico”, afferma ancora Luca De Biase, “di cui certo non può occuparsi lo Stato, ma neppure soltanto il mercato. Il ‘servizio pubblico’ non lo fa solo la Rai, ma chiunque faccia informazione approfondita e accurata.  L’informazione è un bene della comunità, è questo il senso di iniziative come Timu”.

Su Timu si trovano appunto diversi progetti giornalistici aperti – fatti di articoli, video, foto, audio – su temi poco appariscenti, ma la cui onda lunga alla fine tocca tutti, come la dispersione scolastica nel Sud Italia. O come i “muri” che restano da abbattere vent’anni dopo Berlino, oggetto di una “gara” tra i navigatori appena conclusa. La “vittoria” è andata a un videoreportage sulle violenze neonaziste in occasione dell’ultimo Gay Pride di Belgrado.

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