Leggendo l’articolo sulle voci dimenticate della canzone italiana pubblicato sul settimanale francese Telerama, vengono in mente le parole del giornalista Francesco Merlo quando parla di tutt’altro, e cioè del piegarsi di Mario Monti “allo stanco rituale televisivo della terza camera”, Porta a Porta.

Il salotto buono del cortigiano Vespa, dove è stata “confezionata più politica berlusconiana di quanto ne produceva la Camera dei Deputati dove non succedeva nulla”, sta infatti alla politica italiana come Sanremo sta alla musica. E se “c’è in generale un che di terzo mondo in un paese dove l’istituzione più venerata dai politici […] è il talk-show lottizzato”, c’è parimenti un che di terzo mondo in un paese in cui il pianista più riverito – come scrive Anne Berthod – è Giovanni Allevi.

Uno che, scoperto da Jovanotti, in una recente intervista anziché rispondere ad una domanda, decide di dire che quel rintocco di campana, quello lì che sta sotto le loro parole in quell’istante, di fronte alle telecamere, è un Fa. Dice così, questo è un Fa, lo dice due volte. Ma è un Mi.

di Lillo Montalto Monella

Titolo originale: Les voix rebelles de la chanson italienne
Testata: Telerama
Data: 25 novembre 2011
Autore: Anne Berthod
Tradotto: Diego Cirio per italiadallestero.info

Il cantautore Gianmaria Testa, la diva Lucilla Galeazzi… molti sono stati obbligati a cercare il successo altrove. Con la dipartita di Berlusconi, l’Italia ritroverà infine la propria voce?

Bagnati dalla cruda luce di una mattina d’autunno, i vigneti arancioni del Barolo sono come onde che si stendono a perdita d’occhio sui rilievi collinosi della campagna piemontese. La casa di Gianmaria Testa, abbarbicata sul fianco della collina su cui si inerpica il paesino di Castiglione Falletto, ad un’ora abbondante da Torino, è oramai a qualche chilometro. Nel taxi, l’autista abbassa il volume dell’autoradio da cui escono le note di un frivolo successo pop del momento: «Testa? – risponde esitante – Sì… lo conosco di nome, ma non so cosa canti. A dire il vero non sapevo neanche abitasse da queste parti.» Difficile pensare che il figliol prodigo del Piemonte, capace di fare il tutto esaurito ad ogni suo concerto in Francia da ormai quindici anni, non trovi una eco più precisa alle orecchie di un italiano che passa la sua giornata attaccato alla radio. Venti minuti dopo l’ignoranza del tassista fa sorridere il principale interessato, seduto al tavolo della terrazza panoramica di Ranza, la sua vicina ristoratrice. È sotto casa sua che il più delle volte Gianmaria Testa accoglie i suoi visitatori, ancora stupito, nonostante gli anni passati a calcare le scene di tutta Europa, che dei giornalisti stranieri facciano tutta questa strada per venire a trovarlo.

Produzione asettica

Il fatto è che a 53 anni questo «sconosciuto» di successo è una figura a sé nella scena musicale italiana. A pieno titolo nella lunga tradizione transalpina dei cantautori (cantante, autore e compositore tutto in uno), è uno di quegli artisti che fanno vivere il canto popolare nel senso sociale e storico del termine, attingendo alla tradizione orale. Degli artisti esigenti ed assetati di libertà, numerosi ma contro-corrente alla cultura berlusconizzata, fanno sentire una voce diversa, spesso contestatrice, sia essa nei testi o semplicemente nel rifiuto di comporre assecondando i diktat di una produzione asettica; con il rischio, per molti, di non riuscire ad accedere alla meritata fama. «Gli italiani conoscono Brassens, Ferré, Brel, Aznavour, Bécaud e Gréco – snocciola Testa, un pelo divertito. Da noi invece devi passare alla tele per esistere.» Lui non ha avuto i favori del piccolo schermo, ma la fortuna di essere notato, nel 1994, durante il Festival di Recanati, da una produttrice francese di passaggio, che ha prodotto il primo disco di questo «debuttante» di 37 anni. È per questo che la sua voce pietrosa ha cominciato a smuovere le folle in Francia. Quando ha fatto scalo all’Olympia, nel ’97 [ho controllato gli archivi di Repubblica, l’articolo è del 5 febbraio 97, il concerto dell’11], La Repubblica ha titolato in prima pagina: «Il Signor Nessuno all’Olympia!» Sull’onda, tutte le televisioni italiane l’hanno sollecitato. Invano: «Era il fenomeno che li interessava, della mia storia se ne fregavano. Ho detto loro che non ero un’attrazione da baraccone.»

La sua «storia» è quella di un ferroviere, capostazione sulla tratta Cuneo-Nizza, che ha portato avanti le sue due carriere per dodici anni. Un modo per garantire la sua indipendenza finanziaria e la sua libertà creativa, ma anche per restare con i piedi per terra, con un «vero» mestiere. Artista impegnato che ha scoperto la musica ascoltando una cover di “Le Gorille” di Brassens cantata dal suo alter-ego italiano Fabrizio De André, Testa ha spesso fustigato le autorità nelle sue canzoni, dal fetore xenofobo della politica migratoria all’impegno servile dell’Italia al fianco degli Stati-Uniti (vedasi la sua interpretazione di “Le Déserteur” di Boris Vian), passando per le velleità separatiste della Lega Nord, delle quali restituisce una satira fortemente allegorica sul suo nuovo disco, Vitamia. « Un cantante non può fare qualunquismo – si giustifica. È nostro dovere dire la nostra piccola verità». Le sue prese di posizione gli hanno portato l’indifferenza dei media: per sperare di poter occupare uno spazio in uno studio televisivo italiano si deve entrare nello stampino di un paesaggio riplasmato questi ultimi trent’anni sul gusto «bunga-bunga» del Cavaliere, ingordo amante di musica leggera “pop”, leggera quanto i suoi costumi. Con l’instaurazione del suo regno, di preferenza di corto vestito, fatto di talk e reality show, il magnate dei media – possessore di tre canali privati e, fino ad oggi, controllore di fatto dei tre canali di Stato – ha ridotto l’emergere di giovani talenti ad una semplice attività di intrattenimento.

Niente trampolino

«Quello che manca in Italia è la possibilità di promuovere cose nuove», si rammarica Gianmaria Testa. Esempio ne è il Festival di San Remo, il più importante concorso canoro del Paese, la cui finale è trasmessa in tv e guardata da quindici milioni di spettatori. Creata nel 1951, questa manifestazione, che ha per esempio dato i natali artistici a Laura Pausini, è un buon barometro dell’evoluzione musicale del Paese del decano Paolo Conte. Ai suoi inizi, la kermesse è stata il trampolino di lancio di cantanti popolari di ogni sorta, che fossero dei contestatori o semplicemente frivoli (la famosa Volare, di Domenico Modugno). Oggi questo simbolo della società-spettacolo si distingue più per le fanfaronate dell’appariscente presentatore che per la sua vocazione di scopritore di talenti.

«Berlusconi ha trasformato il festival in un riflesso della televisione di Stato: tutto è sotto controllo», è la denuncia della cantante Lucilla Galeazzi. Come Gianmaria Testa questa interprete lirica originaria dell’Umbria ha visto decollare la sua carriera in Francia. Al crocevia tra il repertorio popolare e la musica colta l’artista ridà vita con una luminosa sobrietà alle gloriose tradizioni del canto sociale italiano. I titoli del suo ultimo disco, Ancora Bella ciao (in omaggio all’omonimo spettacolo della sua ispiratrice Giovanna Marini, che diede scandalo nel 1964 davanti all’elegante pubblico di Spoleto) evoca il celebre lamento delle mondine piemontesi nelle risaie del Po, diventato nel corso degli anni l’inno della resistenza antifascista. [nella versione francese si parla degli anni ’50, ma mi sembra un po’ impreciso come riferimento, preferisco dunque sopprimere l’anno] «In una cultura orale, il canto politico è più efficace di molti discorsi», ricorda l’erede musicale della Marini. Riesumata dal Nuovo Canzoniere Italiano, movimento composto da intellettuali ed etnomusicologi, la maggior parte dei canti proibiti per una ventina d’anni sotto il regime fascista fu così “recuperata” negli anni ’60, come autentiche [so che autant non è autentiche, ma mi suona meglio] canzoni portabandiera.

Nel 1994 l’arrivo di Berlusconi alla Presidenza del Consiglio, il quale si presentava come il Mastrolindo della politica, dopo le disastrose derive dei governi democristiani, ha messo in stand-by tutto questo prodigioso fermento di contestazione. «La sua televisione di massa ha avuto l’effetto di inebetire il pubblico» ritiene oggi Lucilla Galeazzi. Anche se esistono ancora alcuni festival dedicati alla canzone d’autore, come quello di Recanati ed il Club Tenco – scelte contestatrici davanti all’uniformazione di San Remo -, ciascuno dei quali vinto per due volte da Testa e Galeazzi, essi sono lontani dall’avere la potenza di fuoco mediatica sufficiente a lanciare nuovi talenti. Servono soprattutto a sottolineare il paradosso indicato dalla cantautrice: «Il canto popolare nel senso più nobile del termine è diventato appannaggio di una élite.» Grandi cantautori del calibro di Cristiano De André (figlio di Fabrizio), Francesco De Gregori, Francesco Guccini o Roberto Kunstler, giudicati troppo schierati, troppo radicali o troppo sofisticati per un pubblico “televisivo”, continuano a scrivere; ma i loro testi e le loro composizioni sono interpretate da altri: questa progenie da talent show, questi nuovi astri da un giorno, sparati in cima alle classifiche da un sistema promozionale e di diffusione ben rodato. Voci giovani, piacevoli, che hanno certo il merito di contrastare l’invasione delle hit anglosassoni, ma che al tempo stesso hanno soffocato la creazione d’autore.

Il risultato di tutto ciò è che a volte proprio in Francia questa creazione d’autore trova una seconda chance. In questo Paese le case discografiche continuano a puntare su artisti quali il singolare Vinicio Capossela, il cui ultimo disco (Marinai, profeti e balene) uscirà il prossimo gennaio. Nel mondo del jazz in molti si sono ormai definitivamente esiliati a Parigi. È il caso dell’eccellente pianista Giovanni Mirabassi, trasferitosi armi e bagagli nel ’92, convinto che «l’Italia non avrebbe tardato e diventare infrequentabile», ed anche perché il Paese «ha da sempre coltivato una tradizione di grandezza che è obbligato a far vivere all’estero». Scandalizzato dall’ostracismo e dall’inerzia culturale del suo Paese, disgustato da un governo capace di «licenziare Ennio Morricone dall’Opera di Roma per rimpiazzarlo con un presentatore televisivo» o di incensare un pianista “mediocre” come Giovanni Allevi, Mirabassi, questo nostalgico del comunismo, che neanche si sorprende di non essere mai stato invitato all’Umbria Jazz Festival, organizzato a Perugia, la sua stessa città natale, ha nel suo nuovo cd (“Adelante”), dedicato ai brani rivoluzionari del mondo, consciamente disdegnato Bella ciao, il canto dei partigiani italiani.

«La vita non è stata troppo allegra sotto Berlusconi», riconosce, meno virulento, l’inclassificabile Ludovico Einaudi. Compositore neoclassico minimalista, questo musicista milanese che dice appagare con il pianoforte il suo «desiderio di scrivere canzoni», trae anch’egli ispirazione dal fertile terreno del canto tradizionale. Solo od accompagnato da un’orchestra, ne trascrive la forza evocatrice in melodie ripetitive e inebrianti, e ciò con un successo tanto discreto (il suo nome resta poco conosciuto) che fenomenale: come Gianmaria Testa, Einaudi si produce il più spesso all’estero, dove si esibisce con il tutto esaurito nei più grandi auditorium del mondo. In questo periodo è in ogni cinema francese con la colonna sonora del successo di botteghino “Intouchables”. Dalle sue parti opera poi per rinnovare la canzone italiana, e lo fa a modo suo: in veste di direttore d’orchestra ha ridefinito, nel quadro delle ultime due edizioni de La Notte della Taranta – megaconcerto capace, grazie a delle sovvenzioni europee e regionali, di radunare ogni estate in Puglia duecento mila aficionados della tarantella –, i contorni di una trance universale, con artisti del calibro di Ballaké Sissoko, Robert Plant e Justin Adams; in quanto padre di famiglia invece ha convinto il maestro di suo figlio ad iniziare la giornata di scuola con l’ascolto di un brano di musica. Perché pure in Italia un buon ritornello, e non dispiaccia questo al Cavaliere disarcionato, ha ancora il potere di ingentilire i costumi.

La cultura a pane raffermo

Opere sull’orlo del baratro finanziario, teatri chiusi uno dopo l’altro… Per gli artisti e gli intellettuali si sta letteralmente uccidendo la cultura italiana. «La cultura mica si mangia», aveva ribattuto il ministro delle Finanze Giulio Tremonti, per giustificare i tagli selvaggi nel budget della Cultura: lo 0,17% del Pil, contro l’1,4% della media europea. La sua dichiarazione ha dato fuoco alle polveri, che poi il recente scandalo di Pompei – il sito starebbe diventando rovine per mancanza di manutenzione – ha trasformato in incendio. Il Governo contava sul suo nuovo Ministro ai Beni Culturali per spegnerlo; il “pompiere” Giancarlo Galan non ha avuto il tempo per mettere in piedi il suo «piano Roosevelt»: la patate bollente è ora nelle mani del suo successore.

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