Erika (di Erika e Omar) torna libera, undici anni dopo. Alla fine di febbraio del 2001 ero a Novi Ligure, accampata insieme a tutti i cronisti davanti al palazzo di Giustizia. Ricordo che la intravidi uscire con la polizia dalla villetta dove qualche ora prima erano stati uccisi sua madre e il suo fratellino. Avevano le facce di due adolescenti, uguali a mille altri. Invece erano due assassini, sarebbero diventati una specie di coppia famosa. Una delle specie peggiori, quelle dello show necrofilo televisivo.

Uccisero la mamma di Erika, Susi Cassini, con 40 coltellate. Secondo Omar prima di morire avrebbe detto alla figlia: “Erika ti perdono”, implorandola di risparmiare il fratello Gianluca, di 11 anni. Non fu così, anche se il ragazzino aveva cercato di fuggire, chiudendosi in bagno. Per lui un agguato e 54 fendenti: morì dopo una terribile agonia. “Mi colpirono gli occhi di entrambi, della mamma e del bambino. Erano occhi increduli e addolorati. Con il professor Pierucci iniziammo l’autopsia alle otto del mattino e la terminammo alle quattro del pomeriggio. Sui due corpi contammo in tutto 94 coltellate”, spiego al Quotidiano nazionale Lella Carlesi, il medico legale di Pavia che con Giovanni Pierucci eseguì l’autopsia sui corpi delle vittime.

In un bellissimo pezzo Maurizio Crosetti, su Repubblica, racconta l’anniversario dei dieci anni dal duplice delitto. E scrive: “Il padre, l’ingegner Francesco De Nardo, c’era come sempre, come dal primo giorno dopo la mattanza. Aveva un mazzo di rose per lei. E c’era la zia, c’era la nonna Giuliana, la mamma di Susy: ‘Erika è cambiata, è più tranquilla. È migliore. Una bellissima ragazza, e mio genero è un uomo eccezionale’. Eccezionale anche nel silenzio, mai una crepa, mai una mezza parola in tivù o sui giornali. Un esempio, un modello, l’ingegnere che lavora nella fabbrica di cioccolato. Le uniche sue parole su Erika le leggiamo nello stralcio dei verbali. “Devo proteggerla, al limite anche da se stessa. Una ragazza della sua età deve per forza avere un futuro. Ma quando la guardo, a volte penso: dove ho sbagliato?”. Di quest’uomo, che ha continuato a vivere per lungo tempo nella villetta dove sua moglie e suo figlio persero la vita, mi ha sempre sconvolto l’immensa forza e l’umiltà davanti a un dolore così atroce. Erika ha rilasciato quest’anno un’intervista a Panorama: dice che le manca molto la mamma, che vorrebbe fosse accanto a lei. Chissà quanto sono mancati a suo padre, chissà se esistono scuse per questo.

Non so se sia giusto o meno che lei oggi sia libera. Come tutti quelli che hanno perso, per un incidente o una malattia, qualcuno che amavano tanto, qualcosa dentro di me è a disagio. Non è per la colpa (che pure c’è, anche nell’efferatezza e nella premeditazione) ma soprattutto perché penso agli occhi sgomenti e addolorati delle vittime. Chi è morto non ha voce e diritti, come il piccolo Samuele, figlio di Anna Maria Franzoni: chi si ricorda di lui? Nessuno, soprattutto in un mondo in cui anche gli assassini diventano star. La condanna peggiore per Erika De Nardo è probabilmente esistere senza la sua mamma e suo fratello: non so se – ora che per la giustizia ha scontato la sua pena – riuscirà mai a perdonarsi.

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