Recentemente ho parlato di una mia cara amica che non poteva più combattere. Sentivo in quel momento l’ingiustizia per una chance che le è stata indegnamente tolta. Poi è stata spenta la luce dei suoi occhi chiari, il suo sorriso è stato contratto e schiacciato dentro il pallore della morte.

Come sempre accade, ognuno di coloro che le erano accanto ha espresso il suo dolore. Alcuni la vogliono angelo in cielo, altri la vedono beata tra le nuvole, altri ancora hanno rappresentato la sua immagine con quella di un fiore o di un cuore. Io, che sono così romantica , al suo cospetto ho sentito e pensato solo tante parole brutte, pesanti, ingiuste. L’ho guardata fissa al collo convinta che avrebbe ripreso a pulsare. Ero così convinta che ad un certo punto mi è sembrato accadesse davvero.

Francesca ora è entrata a far parte del grande libro della storia umana. Non per le sue doti speciali (che aveva davvero e che molti non conoscevano), bensì perché ciò che siamo resta comunque. Anche contro le singole volontà, anche contro la cieca indifferenza.

Sono uscita di lì e mi sono guardata intorno. Mi trovavo in una di quelle che chiamano Rsa (residenze sanitarie assistite). Sono entrata al bar e una signora molto anziana era seduta sulla sedia a rotelle dinanzi al bar. L’infermiera non l’aveva spinta oltre per non intralciare. La signora con una voce incomprensibile di primo acchito, ma ben scandita ponendole attenzione, lamentava che tutti entravano passandole avanti e ignorandola. Sono rimasta in coda dietro di lei facendo quello che tutti facciamo quando siamo in coda. E per qualche minuto non mi sono accorta che tutti passavano anche davanti a me. Eravamo trasparenti. Pur sostando all’interno di una struttura protetta, eravamo fantasmi.

Poco dopo l’infermiera è uscita porgendo una tazza di carta con dentro una bibita calda. Aveva i guanti. Non quelli usa e getta aderenti ma quelli che si trovano nelle confezioni fai da te. Plastica abbondante. Qualche goccia di bibita, scivolata la presa impossibile del bicchiere, è caduta sulla signora, che ha cercato di muoversi. L’infermiera si innervosisce sbraitando che quello è un favore e che non le compete accompagnare i pazienti al bar. Porge un fazzoletto alla signora che faticosamente solleva un braccio per prenderlo e tenta di pulirsi. L’anziana beve, ha bisogno di un altro fazzoletto. Io non sono stata capace di reagire. Sentivo una lama tagliarmi la schiena.

Pensavo a chi , in risposta al miei post, mi ha parlato del dopo di noi. Di quando non ci sarò più io per Diletta. Mi chiedevo quante madri hanno lottato e perso. Ho ricordato come in un film muto la mia amica Franca, mamma di un ragazzo tetraplegico, mancata ad agosto. Cancro anche lei. Combattuto per i cinque anni necessari a gestire da viva il futuro del suo ragazzo.

Mi sono spinta fuori da questa struttura. Ho percorso il giardino squadrato e perfetto. Non vedevo né il verde del prato, né il colore dei fiori. Mi sembrava tutto grigio intorno a me. Non ricordo il vero colore dello stabile. Percorrevo un piccolo marciapiede e ho intravisto le camere al piano terra.

Anziani, disabili e malati si susseguivano di finestra in finestra. Qualche lamento ogni tanto, fino a una finestra che mi ha rapito. Fuori c’erano dei piccoli vasi con dei fiorellini e una signora che faceva la lana dalla sedia a rotelle. Mi ha fatto cenno di andare a vedere la sua sciarpa. Sono andata e attraverso la finestra chiusa le ho detto che era bellissima. Le ho detto che anche i suoi fiori erano molto carini . Ha aperto poco poco la finestra e mi ha detto che ama i colori. Ha aggiunto che a casa ne aveva tanti, ma che ormai sono anni che è lì dentro sola.

Poco distante Francesca riposava esile. Ho voluto salutarla ancora. La guardavo mentre col cuore le dicevo di sentire troppo amore verso questo mondo meraviglioso che ci circonda. Troppo amore per non essere capace di portare via da lì chi cercava i colori della propria casa mentre sprofonda ogni istante nel grigio del cuore. Ma davvero le Rsa sono una soluzione?

Non ho sufficienti elementi per permettermi di dare un giudizio. Mi limito a riflettere su ciò che vivo, sento e provo. Mi sono chiesta: quanto costerà ognuno di questi malati? E se ad ogni malato fosse data la possibilità di scegliere tra Rsa e assistenza diretta? E se le RSA fossero più case famiglia e meno ricoveri? Giorni fa una persona mi parlava di “ospice” come se dire “ospice” al posto di “ospizio” rendesse tutto più bello. Potrebbe esistere una casa chiamata ospizio con più cuore dentro e più dimensione umana. Cambiamo le parole, diamo una ripulita all’involucro senza spesso giungere alla sostanza.

Il dopo di noi è certamente una strada da seguire, ma ad oggi quando parlo di questo argomento mi accorgo di essere davvero impreparata. Mi nascondo come uno struzzo dietro l’ardente desiderio di sopravviverle un istante. E’ un pezzo di equilibrio che non ho raggiunto, una battaglia interiore che non sono ancora capace di affrontare.

Dedico questo post a Francesca. Averla avuta vicino per un pezzetto, anche breve, è stato un onore di cui porterò sempre l’insegnamento. Ciao Francesca.

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