Per favorire l’occupazione femminile il governo Monti starebbe valutando una differenziazione nella imposizione fiscale sul reddito da lavoro di donne e uomini. L’idea è inefficace e ingiusta. Inefficace perché non c’è abbassamento di aliquota che compensi una domanda di lavoro debole o nulla rivolta a donne a bassa qualifica. Ingiusta perché rischia di rivelarsi una redistribuzione da famiglie a reddito basso verso quelle a reddito alto. Più utile investire nella formazione e destinare tutte le risorse possibili all’allargamento dell’offerta di servizi di cura.
di Chiara Saraceno*, Lavoce.info

Tra le possibili proposte di intervento a favore dell’occupazione femminile che verrebbero prese in considerazione del governo Monti ci sarebbe anche quella di introdurre una differenziazione a vantaggio delle donne nella imposizione fiscale sul reddito da lavoro. Verrebbe compensata, per mantenere una parità di gettito, da un aumento della imposizione sul reddito da lavoro maschile.

Una proposta inefficace

La proposta riprende quella avanzata quattro anni fa da Alberto Alesina e Andrea Ichino. (1) A mio parere si tratta di una ipotesi insieme inefficace e foriera di ulteriori iniquità. Inefficace perché il motivo per cui molte donne non lavorano per il mercato (regolare) non è il peso del fisco, ma la mancanza di domanda di lavoro unita alla scarsità dei servizi di cura. Queste due condizioni negative sono presenti soprattutto nel Mezzogiorno, dove sono concentrate le cosiddette “inattive”, ovvero coloro che non si presentano neppure nel mercato del lavoro. Anche nel Mezzogiorno, inoltre, le due circostanze riguardano soprattutto le donne a bassa istruzione, con o senza carichi familiari. Non dimentichiamo, infatti, che le giovani donne sono la stragrande maggioranza dei Neet, ovvero dei giovani tra i 15 e i 24 anni che né studiano né lavorano. Non c’è abbassamento di aliquota che compensi una domanda di lavoro debole o nulla rivolta a donne a bassa qualifica. Si aggiunga che l’eventuale risparmio prodotto dall’abbassamento della aliquota fiscale per coloro che hanno un lavoro non riuscirebbe a compensare i costi di sostituzione del lavoro domestico e di cura, soprattutto, di nuovo, tra chi ha redditi da lavoro più bassi.

E ingiusta

Ma c’è anche una questione di equità. Stante che l’occupazione non è distribuita né distribuibile omogeneamente tra le coppie, e stante il peso delle scelte omogamiche nella formazione delle coppie, l’incidenza della occupazione femminile è molto più alta tra le donne ad alta istruzione, di norma con un compagno con istruzione pari. Ovvero, è prevalente tra le donne e nelle coppie che hanno ancora oggi, pur in un contesto di diffusa vulnerabilità sul mercato del lavoro, un reddito da lavoro individuale e familiare più alto. Viceversa, nelle coppie a bassa istruzione l’incidenza delle situazioni monoreddito (maschile) è più elevata. Ridurre l’aliquota per le donne lavoratrici aumentando quella degli uomini, rischierebbe così di configurarsi come una redistribuzione dalle famiglie con meno risorse a quelle con più risorse.

Se l’intenzione è quella di compensare le donne con carichi familiari per i costi aggiuntivi che sostengono quando lavorano per il mercato ci sono altre vie, più efficaci. Ad esempio, l’introduzione di contributi figurativi a fini pensionistici per le attività di cura, o di un credito di imposta (rimborsabile anche agli incapienti) per il costo dei servizi di cura più consistente di quello previsto attualmente. Anche se temo che i vincoli con cui il governo Berlusconi ha blindato la delega fiscale non consentano molti margini in questa direzione. Se l’intenzione è quella di sostenere l’occupazione femminile, molto più efficace ed equo sarebbe da un lato investire nella formazione delle donne a bassa istruzione, dall’altro destinare tutte le risorse possibili in un contesto di ristrettezze di bilancio all’allargamento della offerta di servizi di cura, per l’infanzia e per la non autosufficienza, e all’ampliamento del tempo scolastico. Ciò non solo renderebbe meno difficile la conciliazione, ma aumenterebbe la domanda di lavoro, prevalentemente femminile, con ciò anche contribuendo ad allargare la base imponibile.

(1)
Alesina, A. e Ichino, A. (2007) “Due economisti propongono: meno tasse sul lavoro delle donne senza perdere gettito”, Il Sole 24Ore, 27 marzo 2007.

* Chiara Saraceno è stata professore ordinario di sociologia della famiglia presso la facoltà di scienze politiche di Torino, e attualmente è professore di ricerca al Wissenschaftszentrum für Sozialforschung di Berlino.  E’ stata presidente della Commissione di indagine sull’esclusione sociale  dal 1999 al 2001. Dal 2000 al 2001 ha rappresentato l’Italia nel Social Protection Committee della UE. Si occupa di temi che riguardano la famiglia, i rapporti tra le generazioni, i  rapporti e le disuguaglianze di genere, la povertà e  sistemi di welfare.

Articolo Precedente

Ma le donne restano donne

next
Articolo Successivo

Bunga bunga
import-export

next