Paola Severino è la prima donna a ricoprire l’incarico di ministro della Giustizia. La prima cosa che potrebbe fare, come segno di discontinuità con il passato, è una pubblica rinuncia alla sua attività di avvocato e di docente (la prima opzione sarebbe di incitamento ai 134 avvocati parlamentari affinché lascino i rispettivi studi durante il mandato, la seconda pare ugualmente d’obbligo altrimenti essendo, la sua presenza, di incitamento alle iscrizioni alla Luiss). Data poi la sua abilità professionale, nei due campi, potrebbe trasformare un dovere etico personale in una norma erga omnes sul conflitto di interessi.

La seconda cosa, tuttavia, dovrebbe essere quella di posare immediatamente il suo sguardo sul disastro in cui versa la giustizia civile, disastro che è fra l’altro oggetto di richiami da parte della comunità europea.

Non stiamo qui a ridare i numeri: non ci permetteremmo di fare ripetizione a una tale maestra.

Più modestamente, segnaliamo al nuovo guardasigilli che alcune urgenze incombono sul funzionamento pratico della macchina giudiziaria a stretto giro di giornata.

Prima fra tutte, lampeggia in rosso la data del 19 novembre, giorno in cui l’Italia passa al sistema della Posta Elettronica Certificata standard, e con l’Italia anche il ministero della giustizia, quindi gli uffici giudiziari di tutto il paese. Siamo pronti? La domanda non è peregrina se si ricorda quel che è successo al momento dell’entrata in vigore della nuova firma digitale, lo scorso 30 giugno, quando tutta la pubblica amministrazione si era adeguata, ma la giustizia era rimasta indietro.

E infatti, secondo Iniziativa Per Area, gruppo tematico promosso da Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia, non lo siamo per niente. Il passaggio alla Pec, secondo loro, non è stato “adeguatamente preparato”. Oltretutto, sempre il 19 novembre entrano in vigore nuove regole tecniche, “regole in alcuni casi del tutto astruse e incompatibili con il Pct (processo civile telematico, ndr), che ribadiamo debbono essere rapidamente e radicalmente superate”.

Il gruppo segnala criticità soprattutto sulle tecnologie degli uffici giudiziari: “Si continua a parlare di digitalizzazione, ma non vi è un piano di rinnovamento e di sostituzione di un parco computer vetusto, ormai in larga parte fuori garanzia, e ogni contratto nazionale sull’assistenza informatica porta ad un drastico peggioramento del servizio, incompatibile con qualsiasi ipotesi di uffici digitalizzati, con una continua riduzione degli addetti e un allungamento dei tempi di intervento (il contratto vigente prevede un tempo di intervento sino a 9 giorni!)”. Alla faccia della rapidità: se si rompe il computer di un magistrato, le società appaltatrici della manutenzione hanno tempo una settimana e mezza per mandare il tecnico. Peggio delle poste ante Passeram!

Ci sarebbe poi da scoprire dove sono finiti i 79 milioni di euro assegnati al ministero dal Fondo Unico per la Giustizia, milioni decisamente indispensabili in questo periodo.

Ma l’appello principale che viene da questi magistrati è che il Ministero recuperi il suo ruolo di “fornitore e organizzatori dei servizi per la giustizia”, essendosi dimostrato negli ultimi anni troppo spesso assente, con un piano nazionale condiviso da tutti gli operatori, giudici, avvocati e anche amministrazioni locali.

Dunque il neoministro, mentre prepara le grandi riforme e i grandi aggiustamenti (dopo le rotture provocate dai predecessori), ha modo di dare subito una prova di concretezza positiva: scoprire dove sono i soldi, mettere in riga le società appaltatrici, eliminare le regole “astruse”.

Articolo Precedente

San Raffaele, in manette Daccò
Il “faccendiere amico dei politici”

next
Articolo Successivo

L’oro della criminalità organizzata

next