In questo autunno del 2021, rinasco, rinasco. Alla Guido Gozzano.

Rinasco nell’ordine ritrovato grazie alla Santa Inquisizione della Vera Impresa che ridiede fiducia all’Italia mettendo all’indice le opere dell’eresiarca Luciano Gallino, il professore torinese che propugnava le tutele dell’occupazione; poi esiliando il marrano Maurizio Landini e le sue polo sbrindellate da sindacalista eversivo.

Si sono avverate le profezie del Beato Sacconi, già ministro delle opportunità oniriche, che brandendo una lancia craxiana trafisse l’idra terroristica annidata nel Lavoro normato/fordista; quello dei cinquantenni “garantiti”, pervicaci persecutori di figli inoccupati con la loro bieca pretesa di non volersi togliere di mezzo.

Mirabile fu l’invenzione linguistica di mutare il termine “garantiti” in “esuberi”; tappa del Sentiero Luminoso intrapreso con l’affermazione dei due dogmi di fede: “chi sta in basso deve prendersela solo con se stesso e vergognarsi”; “mai si è visto che un’attività presupponga remunerazione”.

Allora folle illuminate dal Verbo televisivo e dalla predicazione di Pietro Ichino il Battezzatore compresero quanto la condizione di sfigati precari fosse un segno della benevolenza divina, cui era peccato ribellarsi. Difatti le nuove norme in materia di licenziamenti, annunciate con bolla del governo italiano affissa il 26 ottobre 2011 alle porte di Bruxelles, fecero schizzare la disoccupazione all’11%: l’immediata perdita del posto per 738mila reprobi.

Norme ribadite dall’alto dei Monti (Mario, presidente della Trilateral liberista). E fu tripudio bipartsan.

Sempre allora si diffuse tra i giovani la sana e saggia abitudine di adattarsi a stage e tirocini non retribuiti a tempo determinato, che non si tramutano mai in definitivi. Già agli albori della Grande Conversione (15 settembre 2011) il 46,7% della coorte generazionale tra i 15 e i 24 anni gioiva in tali condizioni (contro il 21% dei coetanei europei). Un milione e mezzo sotto i 35 anni già era disoccupato.

Preme ricordare che la vittoria della Giusta Fede ebbe inizio solo quando il Santo martire Silvio Berlusconi pose mano alla Costituzione, precisandone la legittima interpretazione: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Sì, ma degli altri”. Possibilmente nel Far East.

In tal modo si colmò il divario generazionale: padri e figli, nella comune condizione di gente a spasso, accantonarono invidie e recriminazioni. Precariato e inoccupazione divennero i poli in cui scorre il filo dell’esistenza per milioni di italiani, ormai intenti notte e dì al gioco spensierato della caccia al lavoretto. Si arrestò la blasfemia dell’ascesa sociale, già la più bassa in Europa; confermando i trend: se per i nati negli anni ’50 riguardava il 41%, per quelli dopo il 1985 si era ridotta al 6.

Anche perché all’ascensore della mobilità chiamato industria furono staccati i fili e finalmente si cancellò la pretesa insana di crescere. Le aziende vennero date via. Un po’ agli americani (Fiat, Nuovo Pignone, Ansaldo Breda), un po’ ai francesi (Parmalat, Edison, Alitalia) e perfino ai canadesi (Bombardier).

Apparve così la Vera Impresa: virtuale. Alla faccia dell’infido Mario Draghi, mandato alla Bce per toglierselo dai piedi, che nelle sue Considerazioni finali del 31 maggio 2011 osò bestemmiare: “negli scorsi dieci anni il Pil in Italia è aumentato meno del 3%, del 12 in Francia”.

Finalmente il Lavoro e i suoi diritti, con relative recriminazioni, era stato estirpato.

Sicché venne istituita una nuova Festa della Liberazione (appunto, dal Lavoro); in sostituzione della precedente, inquinata dal Comunismo e da pretese egualitarie. Ritornarono in voga antiche tradizioni, quali il caporalato e il servaggio. Perciò ci si reca tutti in processione nelle piazze, dove i Guardiani sceglieranno chi chiamare quel giorno a fare qualcosa (così, per svagarsi), appurando che non si abbia in tasca la satanica tessera Fiomm.

Fu così che rinascemmo.

In questo gozzaniano mondo di pessimo gusto (e senza neppure nonna Speranza).

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