Nel 1989, a soli 46 anni, un’età da ragazzino per la gerontocrazia italiana, Mario Monti sedeva già nel consiglio di amministrazione di tre pilastri del capitalismo nazionale come la Fiat, la Banca Commerciale (Comit) e le Assicurazioni Generali. Se poi davvero questo professore dal sorriso mite e il curriculum sterminato riceverà il via libera del Parlamento, l’Italia sarà il primo Paese al mondo ad avere un capo del governo che fa parte allo stesso tempo del comitato esecutivo della Trilateral e del Bilderberg group, considerati come due superlobby globali più influenti di stretta osservanza liberista. Detto questo, pare quasi banale affermare che il successore di Silvio Berlusconi è da sempre ospite gradito nei salotti della grande finanza.

In realtà, il nuovo premier non si è mai ridotto a fare da semplice stampella dei cosiddetti poteri forti tanto evocati, spesso a sproposito, nelle ultime settimane. Troppo abile per farsi coinvolgere. Troppo prudente per entrare in conflitto con qualcuno. Va da sé che il rettore della Bocconi (1989-1994) e poi presidente del consiglio di amministrazione della più prestigiosa università economica del Paese, diventa una specie di icona intoccabile. Un nome che dà lustro a consigli di amministrazione, associazioni, centri di ricerca. E allora chi s’azzarda a non dirne più che bene? Scontato. Monti però ha fatto di meglio. E di più. Smussare gli angoli. Attutire contrasti e polemiche. Queste le regole auree di una brillantissima carriera prima da economista e poi anche da tecnocrate al servizio dell’Unione europea dove è stato commissario tra il 1994 e il 2004.

E così adesso riesce difficile collocare Monti in un’ideale mappa dei poteri forti del capitalismo.Come responsabile della concorrenza della commissione Ue, non esitò a portare alla sbarra il governo di Berlino con l’accusa di aver elargito aiuti pubblici illegali per miliardi di euro alle casse di risparmio tedesche. Vinse la partita, ma si attirò i sospetti di chi lo accusava di tutelare più del dovuto gli interessi della City di Londra ai danni del blocco finanziario renano. Ironia della sorte, adesso c’è chi va raccontando che lo sponsor principale del nuovo capo del governo di Roma sarebbe proprio la Germania di Angela Merkel. A dire il vero, nel recente passato gli applausi sono arrivati soprattutto da Londra. Non per niente il britannico Financial Times, sempre così severo con Romano Prodi ai tempi della sua presidenza della Ue, ha invece usato i guanti bianchi con l’altro commissario italiano.

Il fatto è che in quarant’anni di carriera all’ombra di santuari del capitalismo, l’ex rettore della Bocconi è stato bene attento a non farsi cucire addosso una targa di appartenenza. Con Carlo De Benedetti, editore del gruppo L’Espresso-Repubblica, nonché tessera numero uno del Pd, in passato non c’è mai stata grande affinità, nonostante le reciproche attestazioni di stima. D’altra parte l’uomo che ha preso il posto del Cavaliere rappresenta quanto di più lontano si possa immaginare dal berlusconismo. Temperamento e cultura lo rendono di fatto un alieno rispetto al mondo Fininvest. Porte sbarrate? Macché. Le comuni origini varesine legano Monti a Bruno Ermolli, uno dei più ascoltati consulenti di Berlusconi. E con ogni probabilità proprio Ermolli, nei giorni concitati che hanno preceduto la caduta del governo, ha giocato un ruolo importante per convincere il presidente a lasciare campo libero al nuovo esecutivo tecnico.

Adesso, da presidente del Consiglio, il cattolico Monti ha buone carte da giocare anche con il Vaticano. In passato, però, l’ex commissario europeo non ha mai fatto un passo verso la finanza bianca, lo schieramento idealmente guidato dal presidente di Intesa, Giovanni Bazoli. Anzi. La sua carriera si è in gran parte svolta all’ombra dei Palazzi della borghesia laica milanese, un triangolo che comprende Comit, Bocconi, Corriere della Sera, il quotidiano di cui è editorialista da oltre 25 anni. Non solo Milano, però. Amico personale di Giovanni Agnelli, nel 1988 Monti venne chiamato nel consiglio di amministrazione della Fiat. Anni durissimi, quelli, per la multinazionale dell’auto, scossa dalla battaglia tra Umberto Agnelli, fratello dell’avvocato, e l’amministratore delegato Romiti. Peggio: i bilanci grondavano debiti e perdite. Le irregolarità nei bilanci di quegli anni portarono, in piena Tangentopoli, a un processo conclusosi nel 1997 con la condanna di Romiti, poi revocata nel 2009. Monti, che era anche nel comitato esecutivo dell’azienda, lasciò l’incarico nel 1993. Fu solo una parentesi, perché la grande passione, anche accademica, del professore bocconiano sono sempre state le banche.

Già nel 1982, da presidente di una commissione di nomina governativa (ministro Nino Andreatta) formulò una proposta di riforma del sistema creditizio. In quel periodo Monti era già approdato come consulente all’ufficio studi della Comit dove stringe un sodalizio con il banchiere Sergio Siglienti, il cugino di Enrico Berlinguer, pupillo del padre padrone dell’istituto Enrico Mattioli, erede della tradizione laico-azionista che per decenni ha dettato legge nella banca di piazza Scala. Siglienti farà carriera fino a diventare presidente, ma se ne va nel 1994 in polemica con l’allora numero uno dell’Iri Romano Prodi che con una privatizzazione mal gestita aveva di fatto consegnato la banca nelle mani della Mediobanca di Enrico Cuccia. Anche Monti, che era semplice consigliere d’amministrazione, dopo essere stato vicepresidente tra il 1988 e il 1990, preferì fare le valigie. Di lì a poco il rettore della Bocconi spiccò il volo verso Bruxelles, su nomina del primo governo Berlusconi, e non entrò mai più nel consiglio di amministrazione di una società italiana. Non si sono mai interrotti, invece, i suoi editoriali sul Corriere della Sera. Tutti pacati, prudenti, equilibrati. Manco a dirlo.

da il Fatto Quotidiano del 14 novembre 2011

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