Il generale Mario Mori

Per la prima volta la trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra fa formalmente il suo ingresso nella fase dibattimentale di un processo. Il procuratore aggiunto della Dda di Palermo Antonio Ingroia e il sostituto Nino Di Matteo hanno infatti contestato nuove aggravanti al generale dei Carabinieri Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, attualmente accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra. Dal 2007 i due ufficiali sono infatti sotto processo a Palermo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso (Palermo) nell’ottobre del 1995.

Durante tutto il dibattimento, l’ombra del presunto patto tra lo Stato e Cosa Nostra ha sempre fatto capolino, come importantissimo sfondo al mancato arresto del capomafia corleonese. Stamattina però i giudici palermitani hanno allargato il ventaglio delle accuse con due nuove aggravanti. In particolare a Mori è stato contestato di non aver arrestato Provenzano “per assicurare a sé e ad altri il prodotto dei reati di cui agli articoli 338, 339, 110 e 416 bis, per i quali si procede separatamente”. In pratica il procedimento è stato incrociato con l’indagine, ancora in corso, sulla trattativa che vede indagati dalla procura di Palermo sia il colonnello del Ros che il suo braccio destro Giuseppe De Donno per attentato a corpo politico dello Stato, più i boss mafiosi Totò Riina, Bernardo Provenzano e Nino Cinà che insieme ad altri soggetti – i cui nomi sono tuttora coperti da segreto – sono accusati di associazione mafiosa.

Secondo l’accusa, quindi, in cambio della cessazione della strategia stragista sarebbero stati garantiti da pezzi dello Stato benefici di varia natura a Cosa nostra. E la stessa latitanza di Provenzano – proseguita per undici anni dopo il fallito blitz di Mezzojuso – sarebbe stata possibile proprio perché il boss era il garante mafioso dell’accordo tra l’associazione criminale e rappresentanti dello Stato. I giudici palermitani hanno poi contestato sia a Mori che a Obinu l’aggravante di aver commesso il fatto violando i doveri relativi alla pubblica funzione che ricoprivano.

I pm hanno depositato agli atti del processi anche alcuni documenti della commissione parlamentare antimafia e i verbali con le dichiarazioni del magistrato catanese Sebastiano Ardita, ex capo del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Ardita – che sarà citato come teste dell’accusa – è l’autore del volume “Ricatto allo Stato” in cui ha raccontato alcuni episodi inquietanti di cui è venuto a conoscenza durante il suo periodo alla guida del Dap. Come quando nel 1993 fu sospeso il regime di 41 bis a 334 detenuti, tra i quali molti affiliati a Cosa Nostra, nonostante il parere contrario di magistrati e investigatori impegnati sul fronte antimafia. L’allora ministro Giovanni Conso ha riferito in commissione antimafia di aver ordinato lui stesso la sospensione di massa del carcere duro per cercare di frenare la minaccia delle stragi.

Ingroia e Di Matteo hanno inoltre consegnato alla corte presieduta dal giudice Mario Fontana le dichiarazioni di Agnese Piraino Leto, moglie del giudice Paolo Borsellino, ucciso il 19 luglio 1992 nella strage di via d’Amelio. Nel settembre del 2009 e nel gennaio del 2010 infatti la vedova ha raccontato ai giudici della procura di Caltanissetta alcune confidenze fattele dal marito. Nel giugno del 1992 Borsellino le raccontò dell’esistenza di colloqui in corso tra Cosa Nostra e alcuni pezzi dello Stato. Circostanza questa che accrediterebbe l’ipotesi degli inquirenti di una vera e propria trattativa con la mafia per far cessare le stragi già nel 1992. Ipotesi che da oggi diventa un vero e proprio elemento del dibattimento.

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