Se c’è un numero che andrebbe giocato al lotto è il 67 e voi sapete perché. Se ne parla in modo ossessivo da quando il Berlusconi è stato richiamato dalla coppia Merkozy. Non nascondo che la curiosità su quanto segue è stata sollecitata da una discussione familiare tra generazioni differenti.

Ecco il punto.

Due sono gli argomenti principe della stangata previdenziale in corso. Il primo è il costo collettivo delle pensioni italiane, troppo alto a detta dei fautori del lavoro over sixty. Per ora, lasciamolo a mollo. Il secondo è quello che ci interessa in questo ragionamento ed è, lo sapete meglio di me, la crescita dell’aspettativa di vita e il suo conseguente aggancio all’età pensionabile.

Lo avete sentito ripetere fino alla nausea: la vita media si è allungata talmente che non ha più senso andare in pensione a 60-62 anni. Il ritornello prosegue citando i tedeschi, che andranno in pensione a 67 anni (ma nel 2029), e dimenticando i francesi che ci vanno a 60 e si rifiutano di alzare il tetto a 62.

Soffermiamoci allora su questo argomento, la speranza di vita oggi di un italiano medio. Intanto, va detto che il numero 67 non è affatto una novità. Veleggiando in rete, si scova un articolo del Messaggero, maggio dello scorso anno, in cui si preannuncia per allora proprio la stangata oggi in discussione. La questione centrale resta l’altra. Di quanto accidenti si è allungata la vita, da imporre una virata così drastica alle aspettative del futuro (lavorare a quasi 70 anni oppure viaggiare, o passeggiare in montagna, prendere il sole od occuparsi dei nipoti sono prospettive totalmente differenti) delle italiane e degli italiani?

Beh, se cercate vi accorgete senza grandi sforzi che le risposte ci sono, non sono per niente speranzose e, soprattutto, non vengono per niente pubblicate dai grandi organi di informazione che, ve ne sarete accorti, sono tutti schierati a favore dell’innalzamento dell’età pensionabile (ma di questo non si parlerà ora).

La prima risposta la potete trovare all’Istat e dice, sostanzialmente, che la speranza di vita in Italia è passata dai 77 anni del 2001 ai 79,1 del 2010, per i maschi. Quanto alle femmine, sono passate dagli 82,8 agli 84,3. Per cominciare, dunque, è cresciuta meno per le donne che per gli uomini. Attenzione alla prima fregatura: la statistica si riferisce alla “speranza di vita alla nascita”. Per cui, chi è nato nel 2009 vivrà di più (così capisco io, ditemi voi). Chi è nato tra il 1965 e il 1975, ad esempio, e cioè il grosso della forza lavoro oggi occupata stabilmente e già toccata dalla riforma, aveva una speranza di vita più bassa. Quanto esattamente? Sarebbe interessante che ce lo dicessero, non vi pare? L’Istat ci informa tuttavia (però senza ulteriori precisazioni) che la speranza di vita residua per un uomo di 65 anni, nel 2010, era di 18,3 anni e di 21,9 per una donna. Siccome 65+18,3 fanno 83,3 che sono di più dei 79,1 previsti per un neonato del 2010, ciò ci induce a riflettere su un altro paio di questioni.

Innanzitutto, che alcune persone non arrivano né a 70 né a 60, ovvero muoiono prima, mentre ancora lavorano. E’ la famosa media statistica: mezzo pollo a testa, uno a te, nessuno a me. Lo potete applicare anche alle speranze di vita: tu vivi fino a 95 anni e ti godi 28 anni di pensione, io muoio a 68 e regalo allo stato mezzo secolo di contributi (perché va calcolata anche la finestrona di 12 mesi). Ma fondamentale diventa la seconda riflessione, che nessuno, proprio nessuno, ha ancora fatto.

Ce la propongono alcuni soggetti (i medici, ad esempio) che hanno verificato sul campo la differenza tra il vivere vegetando e il vivere bene. Si tratta dell’aspettativa di vita sana, che include evidentemente gli aspetti della vita che la rendono tale: muoversi, guidare, pensare, avere emozioni, essere autosufficienti, etc. oltre al vivere senza portarsi dietro una farmacia ambulante. Ebbene, la sorpresa viene proprio da qui. In Italia, dice Eurostat, l’aspettativa di vita sana è scesa dai 74 anni del 2004 ai 61 del 2008. Più che un’inversione di tendenza è un tracollo.

Ad altri spiegarne le ragioni scientifiche che vanno dall’inquinamento ambientale e alimentare alla farmacodipendenza.

A noi, forse, l’obbligo di interrogarci meglio e a fondo su una riforma che potrebbe costare più di quanto promette di risparmiare: come pesano sul Pil un esercito di malati cronici stabilmente occupati?

Ne riparleremo.

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