Terrorizzati dalla (annunciata e poi smentita) discesa in campo di Matteo Renzi, i pasdaran dalemiani da giorni hanno preso a bersagliare il sindaco di Firenze da ogni direzione e con ogni aggettivo: “E’ un giovane-vecchio”, “E’ un berluschino”, fino a quello che, a loro sentire, rappresenta l’offesa più infamante: “E’ veltroniano”, anzi, “E’ un nuovo Veltroni”.

Sostenuti anche dalle ultime sparate dell’ex sodale di rottamazione Pippo Civati, che pochi giorni fa alla Mala Oposiciòn aveva definito la Leopolda un’iniziativa molto veltroniana(“I veltroniani oggi sono tutti con Matteo, basta leggere i comunicati stampa”), i fedelissimi del presidente del Copasir fanno muro attorno a Bersani provando a gettare fango in ogni modo sull’uomo che oggi rappresenta il nemico interno numero uno del segretario e dell’attuale dirigenza (comprese le nuove leve – loro sì giovani vecchi – cresciute all’ombra del Lider Maximo, in attesa di collocazione).

Certo, tra il fondatore del Pd e il Gran rottamatore qualche punto di contatto c’è: da alcune considerazioni su Marchionne all’american allurement per Bob Kennedy (anche se Kerry Kennedy, sua figlia, pochi giorni fa ha rotto gli indugi scegliendo Renzi come “politico italiano che più si avvicina a quello che diceva mio padre”, mandando in soffitta in pochi istanti quindici anni di kennedismo veltroniano). Mettiamoci anche l’avversione viscerale per D’Alema.

Ma le analogie finiscono qui. Innanzitutto perché Renzi unisce all’anti-dalemismo un anti-veltronismo forte almeno quanto il primo (basta pensare al poco cortese “Disastro e vice-Disastro” affibbiato al tandem Veltroni-Franceschini) e poi perché la loro storia politica è profondamente diversa. L’ex sindaco di Roma viene dal Pci, il primo cittadino gigliato è un (ex?) democristiano. Il primo per diventare segretario del Pd ha preteso l’incoronazione di tutto il vecchio gruppo dirigente (costringendo Bersani a farsi da parte), il secondo invece alle primarie fiorentine del 2009 ha sfidato a muso duro, o “a viso aperto” come recitava un suo vecchio slogan, la nomenclatura “storica” del Pd, uscendone vincitore.

Il primo è stato tacciato di buonismo, ma-anchismo, indefinitezza politica, il secondo, al contrario, viene criticato per l’aggressività istintiva e per una visione manichea, esclusivista, su alcune grandi questioni, dalla battaglia generazionale al rapporto tra impresa e sindacati. Il primo ascolta Jovanotti, il secondo gli U2, e basterebbe questo.

Insomma, a prescindere dal giudizio che ognuno può avere su Renzi, Veltroni, D’Alema e Bersani, l’equazione Walter = Matteo sembra campata per aria, priva di qualunque argomentazione politica o personale. Se non altro perché il primo ha sbagliato parecchie cose, mentre il secondo ha ancora tutto il tempo per sbagliare.

Ma la sindrome da accerchiamento dei probuli dalemini, che sentono i calci in avvicinamento, non permette loro di adoperare la capacità di discernimento. Come diceva Goethe – l’autore che raccontò lo Sturm und drang giovanile – chi è nell’errore compensa con la violenza ciò che gli manca in verità.

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