E’ stato per anni l’asso straniero dei Monty Python. Terry Gilliam, classe ’40, il regista di Paura e delirio a Las Vegas che tra il 17 e 19 novembre riceverà a Rimini il premio Fellini 2011 dalle mani del direttore Paolo Fabbri, era l’infiltrato americano nello storico comico sestetto inglese composto da John Cleese, Michael Palin, Terry Jones, Eric Idle e Graham Chapman.

Anche se con un coup de theatre degno dei migliori trip onirici dei suoi film si è liberato della cittadinanza statunitense nel 2007 in segno di protesta contro Bush Jr. Il coraggio a mister Gilliam non è mai mancato. Già nel ’68 con il rifiuto alla chiamata in Vietnam e la successiva fuga in Inghilterra lo mostrano più propenso al pacifismo hippy che al serrate le fila con batter di tacchi.

In terra d’Albione si mette a disegnare, diventa esperto d’animazione, o meglio s’ingegna a rendere la propria personale visionarietà in qualcosa di creativamente pratico. Se ne accorgono proprio quei buontemponi dei Monty Python in procinto di iniziare nel 1969 la celebre serie tv del Flying Circus. Tra cut out, pezzi di antiche stampe vittoriane, stralci disegnati mette insieme le animazioni dello storico programma che durerà con successo fino al 1974.

Da lì in avanti per Gilliam l’americano, l’unico non laureato ad Oxford e Cambridge tra i Monty, inizia una carriera da regista cinematografico. Dapprima seguendo le tracce del sestetto comico  al cinema (codirige con Jones, Monty Python e il sacro Graal) poi dando libero sfogo ad un’estetica surreale e poco codificabile che lo rende atipico autore di capolavori elevati in una personalissima dimensione del fantastico.

I banditi del tempo (1981) è il primo autonomo passo. Subito dopo è il turno di un autentico capolavoro: Brazil (1985), fantasy che si immerge nella black comedy inseguendo il sogno di donna del protagonista (Jonathan Pryce) in un futuro mondo distopico che sembra 1984 di Orwell.

Gilliam si fa subito un nome. Hollywood chiama e lui propone la storia de Il barone di Munchausen (1988), bugiardone tardo settecentesco che sosteneva perfino di aver viaggiato sulla Luna. Storia che calza a pennello per lo stralunato ex Monty Python. La Columbia pictures sborsa oltre 50milioni di dollari dell’epoca, segue un travagliato e prolifico set, ma quando il film passa alla cassa non raggranella che 8 milioni dollari.

Dante Ferretti, già collaboratore di Fellini e nel film di Gilliam production designer con uno stuolo di artigiani italiani a rendere magniloquente e visionario il set del barone, paragona all’epoca il regista di Minneapolis al maestro riminese (liason: l’altrettanto sfortunato Casanova di Fellini).

Gilliam comincia a farsi la fama più che del regista bizzoso, del direttore d’orchestra estremamente complicato. Uno di quelli che vuole imporre il suo marchio onirico al cinema che va a comporre, costi quel che costi. La leggenda del re pescatore (1991) con gli eccellenti Jeff Bridges e Robin Williams, e L’esercito delle 12 scimmie (1995) tratto dal capolavoro La Jetée di Chris Marker e interpretato da un Brad Pitt in stato di grazia, sono i veri successi di critica e pubblico firmati Gilliam che fanno gioire produzione e regia.

Perché dopo Paura e delirio a Las Vagas si susseguono soltanto fallimenti produttivi: I fratelli Grimm (2005), Tideland (2005) e L’immaginario del dottor Parnassus (2009). Quest’ultimo dovuto perfino rigirare in molte parti per l’improvvisa morte di Heath Ledger, sostituito da ben tre differenti attori.

Per molti, Gilliam porta con sé dalla notte dei tempi una buona dose di sfiga; altri sostengono che la sfortuna nasca solo nel momento in cui il nostro decide di fare un film su Don Chisciotte. Personaggio letterario che attorno a sé sembra avere un alone di iellata sorte da trasmettere a chiunque lo tocchi.

Nessuno è mai riuscito a portare a termine un progetto filmato a lui dedicato. Ancor meno Gilliam che nel 1999 mette in piedi un set in Spagna, ma dopo pochi giorni soccorre l’attore principale Jean Rochefort, che nel film dovrebbe perennemente cavalcare, piegato in due da un’ernia al disco. Rochefort si ritira dalla lavorazione del film e intanto una prolungata serie di piogge torrenziali flagella il set per giorni rendendo impraticabile il terreno ridotto a fanghiglia (la testimonianza terrificante di questo buco nero produttivo è nel documentario Lost in La Mancha). Persi 15 milioni di dollari il film salta.

Il cinema di Gilliam si può  riassumere nella frase “la materia di cui sono fatti i sogni”. Stesso spirito coraggioso, sognatore e allucinato alla Federico Fellini che, alla faccia del realismo sempre in voga ad ogni latitudine e tempo, ha preferito ricostruire sul set i suoi personalissimi mondi interiori. Ode alla fantasia, allora, e alla cattiva sogghignante sorte che fa, comunque, parte del gioco del cinema.

Articolo Precedente

Coopcostruttori, Consorte scarica tutte le responsabilità: “Era morte annunciata”

next
Articolo Successivo

Indignata colpita dalle manganellate. Il procuratore: “Il poliziotto si denunci”

next