Due giorni fa, in un articolo del New York Times, Paul Krugman scriveva: C’è un buco nel mio secchio, cara Liza, cara Liza, riprendendo un ritornello statunitense. C’è un buco nel secchio, cara Liza, e la politica europea che continua a sognare di riempirlo togliendo al welfare e ai risparmi delle famiglie per compensare un debito in strutturale aumento, ricorda per ingenuità disperante il modo con cui i bambini tentano di riempire d’acqua un secchio col buco. È un capolavoro di umorismo tragico, dice Krugman, la politica europea: un gatto che si morde la coda, un processo che sarebbe addirittura comico, non fosse distruttivo, qualcuno dice letale.

Riprendo Krugman per due ragioni. Primo, perchè ho l’impressione, quando leggo della politica italiana, che il dramma berlusconiano, nella sua interminabile agonia, abbia offuscato una verità ben più inquietante, ovvero il fatto che i nostri problemi non finiranno quando cadrà il governo, bensì potenzialmente cominceranno. Paradossalmente, la pietosa volgarità dell’attuale governo ha avuto quantomeno il pregio di risvegliare tutti da un letargo trentennale mettendoci d’accordo. Ora che lo spettacolo sta finendo, mi pare utile ammettere che non è affatto detto che l’autorevole Europa sia un’oasi di salvezza. Dice bene Krugman: il sistema dell’euro sembra condannato e le ricette europee stanno portando a un circolo vizioso che non è  risolutivo. “Non è possibile pagare un debito così grande se significa imporre un’austerità destinata a distruggere la società”, dice Aris Chatzistefanou, co-autore di Debtocracy. Non si possono tagliare welfare, pensioni, salari, posti di lavoro, sanità e scuola, gravare sul risparmio delle famiglie e pretendere che vi sia “crescita”. E da dove verrebbe, di grazia, questa crescita?

Di fronte a queste prospettive sarebbe miope guardare alla caduta di governo come a una panacea: l’eventuale caduta è semplicemente sintomo del fatto che la crisi è diventata ingestibile. Quando l’acqua arriva alla gola, i governi cadono. È avvenuto in Grecia, Egitto, Tunisia, ora probabilmente avverrà in Italia. Non mi sembra una notizia granchè degna di sollievo.

In questi mesi, la ristrutturazione del debito greco ha esplicitato una semplice verità, ovvero che l’unica cosa che continua a crescere in Grecia è esattamente il debito. L’ha detto l’altra sera Ray Dalio di Bridgewater Associates da Charlie Rose: siamo rimasti senza strumenti d’intervento e la cosa preoccupa perché siamo in una fase di deleveraging, di contrazione. La crescita che nel secondo dopoguerra consentiva magicamente di trasformare la competizione di tutti contro tutti in una virtù produttiva, si è trasformata in un principio generalizzato di mors tua vita mea, un processo nel quale nessuno sembra accettare alcuna perdita se non quantomeno con le mani strette al collo dell’altro.

La personalizzazione della crisi italiana è inquietante per un’altra ragione: perché la migrazione del consenso apre varchi di legittimità. Oggi tutti scappano dalla barca che affonda, Fini critica al ministro Gelmini una legge che lui stesso ha avuto un ruolo determinante nel firmare, la Gelmini ammette che forse i tagli all’istruzione erano troppo elevati, la Conferenza dei Rettori, dopo avere in tutti i modi appoggiato un ministro dell’Istruzione sempre più impresentabile, si compiace di avere ottenuto un finanziamento che reintegra parte degli stessi tagli che mesi prima la stessa Crui aveva silenziosamente accolto. Mentre si celebra l’ennesima capriola della politica clientelare, l’unica cosa che mi viene in mente è l’opera di Paul Heinrich Dietrich Holbach, Saggio sull’arte di strisciare: “Un buon cortigiano non deve mai avere un’opinione personale, ma solamente quella del padrone o del ministro […]. Gli piacciono le donne? Bisogna procurargliene. […] Il cortigiano deve ingegnarsi per essere educato con tutti coloro che possono aiutarlo o nuocergli; deve mostrarsi arrogante soltanto con chi non gli serve a niente.

Passi che il governo va e i problemi restano, uno tra tutti la trasformazione del finanziamento del sistema dell’istruzione pubblica in un sistema amaramente dipendente da una politica di lobbying. Il punto è smarcarsi dalla politica dell’incudine o martello per cominciare a decidere sulla base della sensatezza. Qualche giorno fa Guido Viale spiegava che l’unica via d’uscita dalla situazione italiana è “un auditing pubblico del bilancio” che consenta al debito, alla sua composizione, alla sua origine di diventare “l’oggetto di un pubblico dibattito”. Mi sembra l’unica proposta intelligente, a meno che non vogliamo metterci a giocare col secchiello.

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