È uscita in questi giorni per i tipi di Bompiani una nuova edizione di Furore di John Steinbeck. Con il titolo originale di The grapes of wrath, il romanzo racconta l’epopea di una famiglia nell’America della Depressione. La fattoria e le terre dei Joad vengono espropriate dalla banca che non accetta più di prestare soldi ai vecchi agricoltori. Il giovane Tom e i suoi sono costretti a partire per la California andando incontro ad altra, più disperata miseria.

Quel che le banche fecero nel 1929, anche se in modi diversi, è quello che hanno fatto di nuovo in questi anni, divorandosi i risparmi di tanta gente e scatenando la crisi finanziaria che stiamo vivendo. Non vediamo oggi migliaia di convogli di disperati che vagano per l’Europa espropriati di tutto come nell’America degli anni Trenta. Ma vediamo lo stillicidio delle fabbriche che chiudono, dell’assistenza sociale che si sfascia, dei prezzi che aumentano, del lavoro che scompare, delle tasse che si moltiplicano. E per evitare il peggio, gli stati sono costretti a finanziare quelle stesse banche che con la loro avidità hanno provocato il tracollo.

Ecco come descrive la fisiologia della banca John Steinbeck: «The bank – the monster has to have profits all the time. It can’t wait. It’ll die. No, taxes go on. When the monster stops growing, it dies. It can’t stay one size» (nella mia libera traduzione: “La banca – il mostro, deve sempre fare profitti. Non può fermarsi. Morirebbe. No, è una tassa senza fine. Quando il mostro smette di crescere muore. Non può restare com’è”).

Il romanzo di Steinbeck suscitò grande scalpore in America e per lungo tempo fu mal visto dall’establishment per l’aperta denuncia che faceva della voracità delle banche, della spietatezza del libero mercato e del capitalismo selvaggio. Ci sono scene e dialoghi del romanzo che chiaramente istigano alla ribellione contro un sistema economico guidato dal solo profitto, che passa come un carro armato sulle persone, sui loro affetti, sulle loro vite.

Nel brano seguente uno dei personaggi ha rischiato di farsi fregare da un gommista che cercava di vendergli un pneumatico scoppiato: «Says’ when I was a kid my ol’ man give me a haltered heifer an’ says take her down an’ git her serviced. An’ the fella says, I done it, an’ ever’ time since then when I hear a business man talkin’ about service, I wonder who’s getting screwed. Fella in business got to lie an’ cheat, but he calls it somepin else. That’s what’s important. You go steal that tire an’ you’re a thief, but he tried to steal your four dollars for a busted tire. They call that sound business» (Quand’ero ragazzo mio padre una volta mi disse di mettere la cavezza alla giovenca e di portarla al servizio. Io l’ho presa e ce l’ho portata e il tizio del toro poi mi ha detto: ecco fatto. Da quel giorno, ogni volta che sento un commerciante parlare di servizio mi viene da chiedermi: chi sarà che si sta facendo fottere? Per fare affari bisogna mentire e ingannare, ma loro lo chiamano in un altro modo. Ecco come stanno le cose. Se rubi una gomma sei un ladro, ma se uno cerca di rubarti quattro dollari per rifilarti una gomma scoppiata, lo chiamano fare affari).

In questi giorni il Ministero dell’interno sta facendo setacciare l’Italia intera per scovare le mazze, i caschi e le molotov dei black bloc che il 15 ottobre hanno devastato Roma. Tutta gentaglia che non ci stanchiamo di condannare, cugini degli sciacalli che hanno messo a ferro e fuoco Londra l’estate scorsa. Ma tutti figli nostri, scaturiti da questa società e dai suoi paradossi. Gente che non possiamo liquidare dichiarandoli semplicemente estranei al movimento degli Indignados e della legittima protesta. Insomma, tutti teppisti pronti a rubare una gomma senza nessuno scrupolo. Ma andranno gli uomini del ministero a perquisire anche gli uffici di quegli altri pericolosi estremisti che non hanno nessuno scrupolo a vendere gomme scoppiate? Chissà che mazze, randelli e quante altre armi vi troverebbero!

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