“Maurice la checca”, come era meglio conosciuto, di sé diceva spesso: «Sono un cattivo esempio dal quale trarre però buoni consigli». Maurice Sachs è stato tutto. Ha vissuto tutte le vite possibili. Somma degli opposti, acrobatico giocoliere degli eccessi. Ebreo, nato nel 1906 da una famiglia atea e anticlericale, a un certo punto si lascia convertire al cattolicesimo da Jacques Maritain. Fino alla grottesca entrata in seminario dalle tinte tragicomiche: si era fatto foderare la tonaca di rosa, per poi sedurre un ragazzetto minorenne e farsi cacciare.

Infanzia difficile, quella di Maurice. Il padre abbandona la famiglia che lui aveva appena sei anni. La madre, risposata, non si cura troppo del figlio. Ecco come nel suo capolavoro autobiografico di spudoratezza umana e talento letterario, Il Sabba. Ricordi di una giovinezza turbolenta (che torna in libreria, il 26 ottobre, per Adelphi), ci descrive la sua famiglia: «Sono nato trentadue anni fa in una famiglia quanto mai disordinata. Ci si sposava e si divorziava con incredibile vivacità. Gente amante dell’avventura, con alcuni difetti capitali che mi sono stati trasmessi. Pare proprio che mio padre non sapesse vivere se non alle spalle delle donne (ma legittimava questo espediente in municipio). Il carattere di mia madre è più complesso e in alcuni momenti decisivi mi capita di riconoscerlo in me: sentimentale, appassionata, sprovveduta, ossessiva, ha attraversato la vita trasportata di vetta in vetta dalla speranza e precipitata infinite volte nell’abisso.Non so che fine abbia fatto; dopo alcune sventure che racconterò fra poco, si ritirò in Inghilterra. Speravo di ritrovarla quando nel 1938, a Londra, si fece un po’ di pubblicità intorno al mio nome. Ma non si fece viva. Ne ho perso le tracce».

Maurice è solo e deve cavarsela senza contare su nessuno. Ed è così che scopre l’arte truffaldina dell’arrangiarsi. Già a soli 17 anni è costretto a rifugiarsi a Londra, perché a Parigi è incriminato per truffa. Ma se la cava e dopo poco rientra. Sembra trovarsi particolarmente a suo agio nei commerci più loschi possibili. Con nonchalance, s’intende: il nostro ha un indubbio elegante portamento nel prendersi gioco di tutto ciò che può. «Ho ereditato da mio padre la pigrizia, da mia madre la mancanza di equilibrio e la passione, da mio nonno Sachs la curiosità e l’amore per la letteratura, da mia nonna la frivolezza, un certo buon gusto e una singolare forma di egoismo (la più tenace), che è una sorta di indifferenza di fondo; e da ognuno di loro un bisogno di lusso, di disordine, un pizzico di follia e una grande robustezza nello scheletro, negli organi e nell’anima».

L’allure discreta gli permette di entrare nel mondo delle lettere parigine. Inizialmente come segretario di Jean Cocteau. E da lì inizia un balletto di espedienti. Un po’ si prostituisce all’intellighenzia omosessuale – che fra pettegolezzi e realtà ha saputo raccontare meglio di chiunque, con giudizi spietati e penna velenosa ma sommamente felice: Il Sabba ci offre il catalogo virulento delle debolezze, non solo omosessuali, di personaggi noti e importanti come Marcel Proust, Jean Cocteau, André Gide, Max Jacob. Un po’ imbroglia tutti quelli che gli capitavano a tiro: ruba ad amici e amanti della Parigi bene, truffa chicchessia con manoscritti sfacciatamente contraffatti, commercia argenteria e gioielli trafugati durante le cene alle quali è invitato. E così via, fra bordelli omosessuali e laidi commerci. Sempre seducendo.

Il Sabba offre descrizioni meravigliose di quell’ambiente: «Fino allora non avevo mai nemmeno sospettato che esistesse un vero e proprio mercato dell’omosessualità. Qualcuno mi indicò un locale che sotto la copertura di una sauna nascondeva un commercio di prostituti, ragazzi abbastanza apatici, troppo pigri per cercarsi un lavoro regolare, e che guadagnavano i soldi da portare alle loro donne andando a letto con gli uomini; uno degli aspetti più notevoli di quella gioventù deviata, infatti, era che nella sua infame corruzione non vi era traccia né di piacere né di abitudine».

Negli anni Trenta Maurice scappa in America: altra conversione, stavolta al protestantesimo, per sposare una donna di buona famiglia, tale Gwladys Matthews, figlia d’un pastore della Chiesa presbiteriana. Dura poco: tre anni dopo è di nuovo a Parigi con un giovincello americano conosciuto a Hollywood. Il suo talento letterario è noto: nonostante non abbia ancora scritto nulla, André Gide lo raccomanda a Paulhan che gli conferisce un incarico presso il prestigioso editore Gallimard. Peccato che quando va alle riunioni Sachs s’infila i libri sotto al cappotto per rivenderli poi ai bouquinistes sulla Senna. Si dà al teatro, dove firma una pièce apologetica del Partito comunista; poi alla radio conduce una trasmissione di propaganda antinazista che gli costa l’inclusione nelle liste dei ricercati dei tedeschi. Ma questi hanno la memoria corta, e qualche anno dopo può tranquillamente recarsi in Germania.

È il novembre del 1942, in piena guerra mondiale. Sachs arriva ad Amburgo come lavoratore volontario. Abituato alla bella vita parigina, al lusso degli altri di cui sapientemente riusciva a prender parte, si ritrova a fare il manovratore su una gru. Otto ore al giorno. Dalla varia umanità di gigolò e sfruttatori, amanti e trafficanti di ogni genere, collaborazionisti e marchette, alla solitudine del lavoro manuale. E, a quanto sembra, straordinariamente felice. Come scrive il curatore della suo opere, Yvon Belaval: «Personalità abietta? E sia! C’è forse bisogno di commenti? Eppure, un prete che ad Amburgo l’ha osservato con occhio sagace riconosceva in Sachs i segni della grazia». Forse ad Amburgo non trova la grazia, di certo trova un altro lavoro. Si stanca presto della gru. Il nuovo datore di lavoro si chiama Geheime Staatpolizei. Altrimenti nota come Gestapo. Torna perciò in Francia, con la nuova qualifica di agente provocatore e spione della Gestapo nazista. Ecco firmata la cambiale che sarà il sigillo definitivo, per Maurice Sachs, di “maledetto”.

L’avventuriere “Maurice la checca” ora non ha più freni: vita dissoluta, intrallazzi e truffe, mercato nero, soffiate più verosimili che vere. La possibilità di un’eccitazione continua. Giocare all’agente segreto gli si confà: ambienti ambigui, personaggi dubbi e doppi. È il suo mondo. Nel quale può sfoderare tutta la sua indubbia capacità di seduzione.

Ma la Gestapo non ne subisce il fascino. Anzi, inizia a spazientirsi dei suoi traffici, delle imprudenze e dei falsi rapporti che manda a Berlino. Così, nel novembre del 1943, è arrestato dai suoi stessi datori di lavoro. Per molto tempo la leggenda ha voluto che i suoi compagni di prigionia lo linciassero subito dopo l’abbandono del campo dei nazisti. Ma la sua morte fu meno romanzesca. Costretto a lasciare la prigione dai suoi aguzzini, marciò per tre giorni nella primavera del 1945 fino a quando, esausto, non ce la fece più. A quel punto gli piantarono una pallottola sulla nuca.

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