Paolo Sorrentino e Sean Penn a Cannes per la presentazione di "This must be the place"

Le conseguenze del viaggio portano il divo in faccia a un’evocativa toponomastica. Il posto deve essere questo. Largo Anna Magnani, a pochi metri dalla dolce vita di Fellini, con un film che saluta Kaurismaki, guarda a Lynch e omaggia il miglior Wenders. Su una poltrona, Paolo Sorrentino. Interviste e ripetizioni annacquate nell’ironia. “Mi chiedo fino a quando durerà. Di certo, d’altronde, c’è solo la morte”.

Come definirebbe “This must be the place”?
Un ballo tra contrasti, dramma, commedia e pericolose combinazioni pericolose di tono e registro. Tutto ciò che mi appassiona.

Difficile convincere Sean Penn?
Ha accettato dopo tre giorni. La telefonata è durata 8 secondi: ‘È bello, ci sto, quando ne parliamo?’. È uno dei rari attori che non si limita a recitare. A impreziosire movenze, voce e tic di Cheyenne ha contribuito lui.

Altri esempi?
L’idea di farlo camminare curvo è sua: ‘Deve avere la stesso incedere dei ricchi che si sentono in colpa’.

Nel film, fino alla redenzione finale, ogni slancio è trattenuto, represso, soffocato.
Nonostante il mio pudore, si tratta di cenni autobiografici. Di solito evito, ma questa volta me lo sono permesso. Deve essere l’incoscienza dei 40 anni. (Sorride)

Le è pesato dover dominare un budget così anomalo per una produzione italiana?
Nicola Giuliano, Occhipinti e gli altri complici sono stati straordinariamente pazienti. Per il resto, non dovendo riprendere astronavi o scene di guerra, non ho sofferto.

Nessuna angoscia?
Con l’assoluta premessa della relatività, al limite, posso avvertirla adesso. Come è ovvio, si faranno i conti.

Set di lusso?
Scherza? Molti motel tristi nel nulla del niente, banconi di bar desolati, l’America di retroguardia che non trova spazio in cartolina.

Qualcuno le ha imputato un eccesso di suggestioni. La critica francese si è divisa.
Per alcuni, se anche firmassi Barry Lyndon, dovrei dedicarmi al giardinaggio.

Dunque nessuna bulimia narrativa?
Strana osservazione. “This must be the place” è uno dei miei film più essenziali. Affronta temi comuni. L’amore tra un padre e un figlio, l’assenza di un rapporto, l’incomunicabilità.

Sotto le ceneri e i non detti del protagonista cova una rivoluzione.
Tutti, prima o poi, devono crescere. Cheyenne è un bambino. Diventa adulto a 50 anni. Per riuscirci, lasciarsi alle spalle l’abito mentale di ieri è obbligatorio.

È anche un film sulla vendetta?
La vendetta è un condono e un esercizio di stile. Rappresenta lo strumento più facile da scagliare quando recluso nel rancore, l’uomo non riesce a decifrare la complessità. Un film così sarebbe stato meccanico e scontato. Ve l’ho risparmiato.

da Il Fatto Quotidiano del 7 ottobre 2011

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