Succede di poter confondere concetti che comunemente possiedono una connotazione diffusa con altri che invece ne possiedono una esclusivamente tecnica. Così avviene per il concetto di “tracciabilità” il quale, complici innumerevoli interventi legislativi, diventa, secondo opinione diffusa, un fastidioso strumento dello Stato per interferire nelle questioni “private” dei pagamenti.

Succede poi che a ingenerare confusione siano talvolta gli stessi operatori di mercato attraverso interpretazioni sbagliate e a dir poco fantasiose. E’ questa la vicenda della cliente di un noto gruppo bancario che ha avuto la sfortuna di imbattersi nella forzosa burocrazia di una filiale nella provincia di Viterbo, la quale rifiutava il prelievo alla sua correntista per un importo pari a 2.500 euro, asserendo che le nuove disposizioni antiriciclaggio non consentono di rilasciare queste somme (depositate nel conto del cliente) se non dietro una giustificazione dell’utilizzo che se ne vuol fare. Ovverosia, il cliente deve firmare un modulo nel quale egli dichiara come intende spendere i (suoi!) soldi.

E’ evidente che ci troviamo di fronte a una forzatura interpretativa che sconfina, a mio parere, nel ridicolo. Ma andiamo con ordine.

La norma in questione è contenuta all’art. 49 del decreto antiriciclaggio (D.lg. 231/2007), così come appena modificato dalla cosiddetta manovra bis. Questa contiene una soglia limite (2.500 euro) oltre la quale per i pagamenti tra privati (e anche le donazioni e i prestiti familiari) è necessario ricorrere a un mezzo tracciabile. Il contante deve passare quindi attraverso banche o poste se supera i 2.499 euro e gli assegni non possono superare questa soglia se sono liberi, ossia non recano la clausola di non trasferibilità.

Vero è che la norma in questione, rubricata Limitazioni all’uso del contante”, utilizza un’espressione di per sé poco felice e a tratti fuorviante. In effetti la Commissione ministeriale che ha redatto il decreto 231/2007 della quale ho fatto parte, avrebbe forse dovuto utilizzare una formula più chiara, come “Limitazione alle modalità di utilizzo del contante”. Già, perché il punto focale della discussione sta proprio in questo: l’intento unico del legislatore è quello di monitorare i flussi finanziari al fine, ad esempio, di combattere l’evasione, il riciclaggio, l’usura, non di certo di conoscere o, peggio ancora, di influenzare le scelte di spesa del privato.

In sostanza, ognuno è ben libero di spendere i propri denari come meglio crede, senza che altri possano interferire con le sue scelte. Tantomeno, per tornare all’esempio della banca di cui sopra, nessun istituto di credito potrà chiedere al proprio cliente come egli intenda utilizzare il contante, poiché questo non influisce nelle valutazioni legate all’adeguata verifica del cliente; ancor più grave, nessun istituto di credito potrà rifiutarsi di restituire il denaro depositato, sotto forma di prelievo, in forza di una legge che non dice affatto questo. La banca rischia la denuncia per appropriazione indebita, e temo che fino alla prima il sistema bancario non si renderà conto della gravità dei comportamenti in questione.

Si potrebbe poi pensare che il provvedimento della Banca d’Italia recante gli indici di anomalia per gli intermediari contenga delle indicazioni che vadano in questa direzione, ma ad una semplice analisi si capisce che anche in questo caso il provvedimento non fa mai riferimento a soglie legate al prelievo tout court se, a monte, non vi siano già stati comportamenti “sospetti”, quali trasferimenti di ingenti capitali all’estero, operazioni frazionate o ripetute, ovvero preceduti da pagamenti di importi significativi.

Quella dell’articolo 49 è una norma chiave della lotta al riciclaggio, diremmo forse imprescindibile, per la tracciabilità della filiera del contante, da quando viene generato e in tutti i suoi passaggi successivi. Assicurare la tracciabilità dei flussi finanziari è il presupposto per la lotta a reati gravi quanto odiosi come l’evasione o, appunto, il riciclaggio, ma ciò non può e non deve giustificare procedure pedisseque e sterili. Mi riferisco al lavoro degli operatori finanziari, veri terminali della normativa antiriciclaggio, poiché investiti di questa responsabilità. Più che di responsabilità però mi piace parlare di responsabilizzazione, che non si tramuti in un’operatività finalizzata solo all’evitare le pesanti sanzioni previste dalla legge attuale.

Contributo essenziale deve essere fornito dalla formazione, nella prospettiva e in coerenza con una normativa, seppur a tratti incompleta, ma sicuramente efficace. Il progresso dell’attuale normativa deve volgere lo sguardo anche a strategie di istruzione e di formazione durante l’intero iter professionale, quale momento essenziale per la successiva fase di approccio al cliente e di sviluppo del business.

Con la collaborazione di Mirko Barbetti

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