di Matteo Bittanti
La tecnologia non ci consente di inventare il futuro. Semmai, prolunga il passato. Anzi. In un certo senso, la tecnologia ha ucciso il futuro. Il curioso paradosso è il leit motiv di Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato (Isbn), il nuovo saggio del critico britannico Simon Reynolds.

Se oggi ci troviamo intrappolati in un “lungo presente”, sospesi in un limbo temporale in cui la distinzione tra oggi e ieri ha perso ogni significato, suggerisce l’autore di Totally Wired, la “colpa” è di internet, dell’iPod, di YouTube, di Pandora, del peer-to-peer e della nuvola che minaccia una pioggia digitale persistente. Una tesi controcorrente, che si schianta frontalmente con l’ottimismo sfrenato dei deterministi tecnologici che venerano Apple, Google, Facebook e Wikipedia. La critica di Reynolds si concentra essenzialmente sulla musica commerciale, ma il suo vero vero bersaglio è la pop culture planetaria all’inizio del ventunesimo secolo.

Del resto, non esiste ambito dell’industria creativa che non sia stato profondamente trasformato dai new media, come ben sanno giornalisti, cineasti, scrittori, musicisti: «In ambito culturale, oggi sperimentiamo un bizzarro amalgama di velocità estrema e punti morti. Questo fenomeno permea ogni aspetto del cosiddetto web 2.0: il susseguirsi rapidissimo di notizie (news ufficiali, aggiornamenti in tempo reale, argomenti trendy su Twitter, il chiacchiericcio costante dei blog etc.) è accompagnato dalla caparbia persistenza di detriti nostalgici».

La feticizzazione del passato è particolarmente evidente nella musica pop, che all’innovazione preferisce l’emulazione. Alla rivoluzione il revival. Una tesi per altro già esposta da Jaron Lanier in uno dei capitoli finali dello spumeggiante pamphlet Tu non sei un gadget (Mondadori, 2010), nel quale il rasta di Berkeley definiva «comatoso» lo stato del pop, riconducendo l’odierna crisi creativa alla diffusione incontrollata di offerta in rete. Ossia: l’eccesso di accesso ha sgonfiato la verve creativa delle nuove leve.

Citando l’antropologo Steve Barnett, Lanier concludeva che la nostra cultura presenta tutti i caratteri della «pattern exhaustion» (letteralmente: esaurimento di possibili traiettorie). E si chiedeva: «Dov’è la nuova musica? Ogni cosa è retro, retro, retro…». La medesima tesi riappare nel saggio di Reynolds: la musica ha smesso di evolversi. Di crescere. Non ci troviamo in una fase di plateau, ma di vera e propria impasse. La tecnologia ha indubbiamente rivoluzionato il modo di consumare suoni e ultrasuoni – i capitoli migliori del saggio sono dedicati a fenomeni come il collezionismo di file mp3 rari e all’ascesa dell’iPod – ma non ha trasformato la musica in quanto tale. Il lucido pessimismo postmoderno – per cui tutto è già stato prodotto, per tanto non ci resta altro da fare che remixare l’esistente – ha reso impotente l’homo technologicus.

Prendi il mash-up, genere che Reynolds liquida come «sterile». Ironicamente, il processo di rallentamento creativo affonda le sue radici negli anni Sessanta, la decade più vitale sul fronte acustico (e non solo) del ventesimo secolo. Un altro paradosso che Reynolds descrive senza veramente spiegare. E si potrebbe notare, en passant, che se da un lato il critico lamenta la fine dell’originalità, dall’altro non definisce l’elusivo termine. Il nostro si limita a registrare che alla passione neofila che caratterizzava i decenni precedenti si è sostituita un’ossessione retro che prevede la riproposizione coatta del recente passato.

Ora, il revival permanente non è un fenomeno necessariamente nuovo. Dopo tutto, quasi mezzo secolo fa, McLuhan scriveva che «Una delle caratteristiche essenziali della perdita di identità [tipico dell’era elettronica] è la nostalgia». Lungi dall’essere un fenomeno superficiale, il revival svolge una funzione esistenziale, in quanto «ci dice chi siamo, o per lo meno, chi eravamo». Quello che Reynolds trova scoraggiante è la pervasività del fenomeno, da un lato, e la sua accettazione sociale dall’altro. Detto altrimenti, la nostra società, nel suo complesso, ha smesso di produrre nuovi suoni limitandosi a riciclare/ricreare quelli esistenti. Ma la fine dell’originalità, anziché indignare o indispettire il pubblico – o quanto meno la critica – è stata accolta da una generale indifferenza o persino entusiasmo. Il taglia-e-incolla è diventato il modus operandi di un’intera generazione.

Si consideri questo passaggio : «L’arte della riproposizione è strettamente connessa a quella della copia, che abbraccia fenomeni apparentemente distanti come il karaoke, programmi televisivi, la sottocultura delle tribute bands, la fan fiction online e le parodie su YouTube, fino al successo mostruoso di videogame musicali come Rock Band e Guitar Hero».

Inoltre, secondo Reynolds siamo vittime (in)con-scienti di una «crisi di uber-documentazione», favorita da fenomeni di pura celebrazione che hanno trovato la loro massima espressione in siti come YouTube: «Oggi, anche la performance musicale più irrilevante viene archiviata all’istante da un membro della band per i posteri o caricata su YouTube come filmati non-ufficiali di un fan via smartphone prima ancora che la performance sia finita». E poi: «YouTube ha raggiunto un importante traguardo: trasmette in streaming oltre due miliardi di video al giorno e rappresenta il terzo sito più visitato al mondo. Ogni minuto, oltre ventiquattro ore di video vengono caricati sui suoi server. Un individuo dovrebbe vivere in media 1700 anni per poter consumare le centinaia di milioni di video presenti online.

YouTube non è solo un sito internet e nemmeno una tecnologia: è un intero campo di pratiche culturali». E poi: «Il labirinto proliferante della reminiscenza collettiva indotta da YouTube rappresenta un esempio paradigmatico della “febbre dell’archivio” prodotta dalla cultura digitale (e descritta in tempi non sospetti da Derrida). Nel momento in cui le informazioni culturali si smaterializzano, la nostra capacità di memorizzarle, classificarle e consumarle viene enormemente aumentata e implementata». Ma Reynolds non sembra apprezzare la cosa: «Non esiste alcuna prova che YouTube abbia incrementato in modo significativo la nostra abilità di gestire tutta quella memoria». YouTube causa impazienza, incapacità di concentrazione e aperto disprezzo per modelli narrativi definiti da terzi (il famigerato Autore), celebrando un consumo frantumato, frazionato e superficiale.

L’accesso incondizionato e indiscriminato agli archivi musicali del ventesimo secolo ha generato forme di bulimia sonora. E l’iper-stasi della musica pop attuale trova in una figura come Lady Gaga la sua massima – e insieme minima – espressione. Che la superstar più celebrata del ventunesimo secolo sia indistinguibile dalla Madonna di vent’anni fa lo conferma la sua ultima performance agli MTV Awards, dove si è presentata sul palco truccata come il Ralph Macchio di Karate Kid. Siamo intrappolati in un remake di Ritorno al Futuro: gli anni Ottanta non sono mai finiti. Gli anni Ottanta non finiranno. Mai.

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