Il presidente palestinese Mahmoud Abbas

Mahmoud Abbas non ha fatto quel passo indietro che da mesi gli chiedono con insistenza gli Stati Uniti. Né quel mezzo passo indietro che fino a ieri gli ha chiesto l’Unione Europea, inviando in Medio Oriente – per tentare di convincerlo – anche Mrs. PESC Catherine Ashton. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), questa volta però nella veste di capo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), ha confermato oggi in un atteso discorso tenuto a Ramallah che chiederà all’Onu per la Palestina un seggio di “membro a pieno titolo”. Niente di meno del riconoscimento pieno di uno Stato sui confini del giugno 1967, prima dell’occupazione da parte di Israele, composto dall’intera Cisgiordania, da Gaza e da Gerusalemme est, la capitale.

La sfida continua, dunque, e la settimana prossima si annuncia di conseguenza una delle più delicate della cronaca mediorientale di questi anni già complessi. E’ una sfida singolare, quella della richiesta del riconoscimento dello Stato di Palestina. Nata come un ballon d’essai, nell’entourage dei dirigenti dell’Olp, verso lo scorso autunno. E poi pian piano lievitata sino ad assumere i contorni di una mossa tanto importante, nel confronto ultrasessantennale tra israeliani e palestinesi, da poter cambiare persino le carte sulla tavola dei negoziati. È fuor di dubbio, la richiesta di riconoscimento dello Stato è – dal punto di vista diplomatico – la mossa più importante da parte palestinese, dai tempi dell’apertura di Yasser Arafat che spianò la strada, dopo qualche anno, agli accordi di Oslo. E rimane una mossa importantissima, anche se ai palestinesi manca – in questa infinita transizione post-Arafat – la visione strategica.

C’è chi ha parlato di una mossa alla David Ben Gurion, come fu quella perseguita nel 1947 per il riconoscimento di Israele. Il riconoscimento internazionale di uno Stato e di uno status, per poi arrivare alla sua vera attuazione. Il problema – serissimo – è che la casa palestinese è divisa, e che Fatah e Hamas non hanno sanato la loro frattura pur avendo firmato, lo scorso 4 maggio, la riconciliazione formale. Deboli entrambi, nel consenso interno e nelle definizioni delle rispettive strategie, i due movimenti hanno lasciato il campo all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, in attesa di giorni migliori e delle conseguenze del dibattito all’Onu. E l’OLP, dal canto suo, dovrà gestire alle Nazioni Unite una sfida imponente, senza aver compiuto quella riforma necessaria che i palestinesi attendono da anni e che ha reso più fragile la stessa istituzione.

Nodi interni irrisolti a parte, a venire in soccorso ai palestinesi sono due evenienze della Storia. La tempesta delle rivoluzioni arabe che, loro sì, hanno rimescolato definitivamente le carte della regione e hanno compattato tutti, dagli arabi alla Turchia neo-ottomano di Recep Tayyip Erdogan. E l’arroccamento di Israele su posizioni dure, quelle condotte dal governo di destra guidato da Benjamin Netanyahu, e sostenuto dalla potente lobby dei coloni, sul piede di guerra in attesa del voto dell’Onu. La chiusura totale di Tel Aviv, ammorbidita nei toni solo nelle ultime ore, ha giocato involontariamente a favore del riconoscimento da parte delle Nazioni unite, compattando attorno alla richiesta dell’Olp i due terzi dei voti in Assemblea generale e isolando, nella sostanza, gli Stati Uniti che porrà il veto in Consiglio di sicurezza.

Comunque vada a finire, la questione del riconoscimento dello Stato di Palestina è un fatto che non potrà più esser messo di nuovo nel cassetto. Né dai palestinesi, che forse ancora non si rendono del tutto conto di quello che dovranno fare dopo, per aderire alle convenzioni internazionali e per diventare uno Stato a tutti gli effetti. Né dagli altri, Israele in primis, che si troverà di fronte un soggetto istituzionale formalmente alla pari. Sembra, in sostanza, la fine della ‘condizione speciale’, dell’entità istituzionale che non è Stato ma è comunque qualcosa di reale. E pone, allo stesso tempo, anche quella domanda che i palestinesi stessi si sono ancora guardati dal porre: se la Palestina sarà uno Stato, chi saranno i suoi cittadini? Solo gli abitanti di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est, o anche tutti quei palestinesi – in prima fila i rifugiati – sino ad ora rappresentati dall’Olp? La partita che comincerà al Palazzo di vetro, la prossima settimana, è solo la prima di una lunga serie, ma ha già cambiato parte del vocabolario di un processo di pace in coma da anni. E ne cambierà, molto probabilmente, anche gli stessi punti all’ordine del giorno.

di Paola Caridi

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