Il presidente francese Nicolas Sarkozy

Non è che a Parigi le cose da fare manchino. La «manovrina» appena approvata, da mettere in atto. Le banche che crollano in Borsa. Le trattative con Merkel e Barroso per impedire il default greco. Ma oggi Nicolas Sarkozy ha trovato il tempo di compiere una visita lampo in Libia, accompagnato dal premier britannico David Cameron. Perché, da quando il presidente francese è stato il primo e il più risoluto nel volere l’intervento militare occidentale contro Tripoli (dopo avere pure lui accettato ai tempi la farsa delle tende piantate in mezzo a Parigi in occasione di una visita “dell’amico” Gheddafi), è deciso a battere cassa. Vuole difendere gli interessi delle sua aziende, adesso che è scoccata l’ora della ricostruzione. La Francia è stata sempre debole in quanto a business nel Paese nordafricano. Ebbene, perché non sfruttare quel «capitale di simpatia», come lo chiamano a Parigi, cresciuto negli ultimi tempi in Libia nei confronti dei francesi, per imporsi sugli antichi rivali? Non viene mai nominata, ma si tratta soprattutto dell’Italia, tradizionalmente il primo partner commerciale dei libici.

Ieri le voci di un «salto» di Sarkozy sull’altra sponda del Mediterraneo si sono rincorse durante tutta la giornata. Poi verso Tripoli sono decollati 160 poliziotti francesi superesperti, per preparare il viaggio e assicurarne la sicurezza. Stamani anche il presidente francese è decollato: anche lui, direzione Tripoli. Lì ritrova Cameron. Visiteranno un ospedale, incontreranno i rappresentanti del Consiglio nazionale transitorio (Cnt) e poi si sposteranno a Bengasi, dove il presidente francese dovrebbe pronunciare un discorso nella piazza della Libertà, in tempo per essere trasmesso ai telegiornali della sera.

E’ un’iniziativa politica (Sarkozy non sarà accompagnato da imprenditori, almeno ufficialmente), ma la valenza è chiara. Arrivare prima degli altri (anche di un certo Berlusconi, decisamente impegnato su altri fronti). Cercare di accaparrarsi una parte dei 200 miliardi di dollari che dovrebbe valere, secondo il Cnt, la ricostruzione. Gli altri, si sa, non restano con le mani in mano. Neppure gli italiani, vedi la visita a Tripoli già a fine agosto di Paolo Scaroni, amministratore delegato di Eni, per «blindare» i contratti del suo gruppo. E non farsi fregare dai competitors.

I francesi, però, sono temibili. Si stanno muovendo alla loro maniera. Cioè organica, organizzata. Una vera macchina da guerra. Total, il colosso petrolifero, diretto concorrente di Eni, ha già inviato i suoi rappresentanti sul posto a incontrare i ribelli fin dal mese di giugno. Lo stesso avrebbe fatto il contractor francese Vinci, in concorrenza con la nostra Impregilo. La scorsa settimana il Medef, la Confindustria francese, ha organizzato in pompa magna a Parigi un convegno sulle opportunità offerte dalla Libia, con la partecipazione di oltre 400 influenti imprenditori e il sottosegretario al Commercio estero Pierre Lellouche. In questi giorni si segnala già una prima missione di rappresentanti di gruppi francesi in viaggio fra Tripoli e Bengasi. Ma una più ampia e ufficiale, guidata dello stesso Lellouche, è in preparazione per il prossimo mese. Tra i colossi che più scalpitano, quello di Vincent Bolloré, amicissimo di Sarkozy, che già aveva firmato a fine 2010 un contratto per la gestione del porto di Misurata.

Prima del conflitto l’Italia era il primo Paese fornitore della Libia, con esportazioni pari a 3,4 miliardi di euro. La Francia era ferma al 6° posto, con appena un miliardo. Sul fronte del petrolio, Total produceva in loco 55mila barili al giorno, mentre Eni ben 270mila, in un Paese che in tutto fornisce 1,8 milioni di barili quotidianamente (anche se, secondo gli esperti, con i dovuti investimenti si potrebbe arrivare a quattro).

I francesi si sono lanciati in ogni direzione. Lellouche, qualche giorno fa, lo ha detto chiaro e tondo: «Il nostro Presidente ha preso rischi politici e militari in quel Paese. Le autorità libiche lo sanno: ci devono qualcosa».

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