Se mi trovassi di fronte alla classica scelta dei due libri da portare nell’isola deserta, oggi come oggi non avrei dubbi: Il lungo XX secolo e Adam Smith a Pechino di Giovanni Arrighi.

Il tracollo che sta investendo l’economia globale secondo Arrighi è il quarto in ordine cronologico da quando nel XIII secolo i genovesi si sono inventati questo strano sistema basato sulla violenza e il sopruso che comunemente chiamiamo capitalismo. La prima crisi c’è stata quando, dal ciclo di accumulazione capitalistica che aveva in Genova il suo baricentro, s’è passati al dominio degli olandesi. Poi quando il centro dall’Olanda s’è spostato in Inghilterra, e quando dall’Inghilterra, a partire dalla fine del XIX secolo, è passato negli Stati Uniti. Ogni volta questi passaggi sono stati tutt’altro che indolori, e nell’ultimo hanno causato due guerre mondiali devastanti. E quando si parla di questa anomalia che chiamiamo finanziarizzazione, bene, da questa prospettiva ci accorgiamo che tanto anomalia non è, e che si è verificata ogni volta che il timone è passato di mano.

Secondo Arrighi oggi al cuore della crisi c’è il passaggio di consegne dagli Usa alla Cina. Altro che i subprime, altro che quegli scialacquoni dei greci, il mondo sta cambiando dalle fondamenta, e non necessariamente in peggio.

Partendo da una distinzione tra capitalismo ed economia di mercato, Arrighi arriva a sostenere che la Cina, nonostante tutte le sue aperture e l’essere entrata a far parte a pieno titolo dell’economia globalizzata, non può ancora essere definita capitalista. E questo lascia spazio ad una speranza: che il nuovo ciclo di accumulazione non si basi necessariamente sull’uso della forza e sulla rapina. Al loro posto potrebbe subentrare un sistema di relazioni internazionali multipolare, dove la pace e la stabilità sono garantite non dallo strapotere di un impero ma da sofisticati meccanismi di bilanciamento tra potenze di pari dignità.

Che in Cina Arrighi abbia fatto scuola lo dimostra il nuovo libro bianco pubblicato di recente dal Consiglio di Stato cinese dal titolo China’s Peaceful Development. In pratica, un infinito pippone per garantire a chi se la sta facendo sotto dalla paura che l’ascesa della Cina può significare più prosperità per tutti, e che la Cina si pone il solo obiettivo di dare il suo contributo alla costruzione di una comunità internazionale basata su regole uguali per tutti.

Ma secondo Nouriel Roubini, prima di giocare un ruolo globale, la Cina sarà travolta dalla crisi. Investimenti al 50% del Pil sosterranno la crescita a due cifre per un altro paio di anni, ma poi l’atterraggio duro per sovrapproduzione sarà inevitabile, e tutti gli sforzi, dal XII piano quinquennale, ai 500 miliardi della manovra anticrisi del 2008, non saranno in grado di cambiare l’inesorabile destino.

D’altronde non è la prima volta che gli economisti mainstream occidentali prevedono il crollo del dragone. In principio fu Thomas Rawsky dalle colonne dell’Economist. Per mantenere un buon tasso di sviluppo, sosteneva, il gradualismo del dragone non va bene, ci vuole una terapia shock in stile ex Urss. Anche il nobel Krugman ai cinesi gliel’ha sempre gufata arrivando a sostenere una decina di anni or sono che “le odierne previsioni di una futura supremazia asiatica… sono probabilmente destinate a rivelarsi altrettando assurde quanto certe datate proiezioni sullo sviluppo del blocco sovietico”.

I dati invece dicono che dal 1978 a oggi il Pil cinese è aumentato di 16 volte, passando dall’1,8% del prodotto globale al 9,3% e riducendo le persone che vivono al di sotto della soglia di povertà da oltre l’80% al 16% della popolazione.

Quel che rimane quindi è la superficialità con la quale a Occidente si guarda al fenomeno più importante del XXI secolo, come dimostra un editoriale di giugno del Corriere della Sera a firma Ernesto Galli della Loggia su cui tornerò in dettaglio nel prossimo post.

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